(Autoprodotto 2009)
Carlo Barbagallo è tutto meno che uno sprovveduto alle prime armi. All’età di 24 anni ha già alle spalle una carriera pluridecennale (sì sì, avete letto bene), collaborazioni che vanno da indie band a musiche per film passando per sperimentazioni elettroacustiche e progetti casalinghi vari. Di recente lo abbiamo visto all’opera, tra i vari suoi progetti, con gli Albanopower, ma qui se ne esce in solitaria con un disco idealmente diviso a metà in due lati che mescole svariate istanze: la psichedelica dei tardi Beatles, il country-blues degli ultimi decenni e le divagazioni elettroniche contemporanee innaffiato di un liquido onirico a bassa fedeltà che avvolge le undici tracce come un velo sottile ma impossibile da squarciare.
La prima metà del disco è aperta dalle chitarre sporche e dal gusto polveroso di Paper Mirror, che ricorda certi episodi dei nostrani Jennifer Gentle. La melodia pianistica di Yolkrise ci introduce a paesaggi crepuscolari che rimirano da lontano i viaggi inaciditi dei Pink Floyd. The Motion è evidentemente debitrice di Sgt. Peppers senza però sembrarne una copia senz’anima. Spectacle vira verso un blues figlio sghembo di Neil Young, prima che Pale Purple Sky inserisca in questa struttura un intrigante mix di banjo e singulti elettronici. Motion Reprise, invece, è una breve suite elettroacustica dilatata e dal sapore robotico che mostra il lato più electro del cantautore di Siracusa.
L’ideale seconda parte del disco, quella forse meglio riuscita, è aperta da Cold Shiver, danza elettro-gitana sempre in salsa psichedelica che ammalia e ipnotizza, con coda affidata ad archi che accompagnano una voce vocoderizzata. Oh Carol! torna in territori blues-psichedelici più tradizionali con un ritmo soporifero che si scuote solo nel finale, quasi lambendo forme post-rock. Friday è sinistra e sottilmente malinconica come i primi inni d’amore di Daniel Johnston rivisto però all’epoca del sintetizzatore. A chiudere il disco i due strumentali Little Island e French Road, che si dilatano delicatamente tra velleità ambient e desideri sinfonici, come se gli Sparklehorse abbandonassero definitivamente la forma pop per approdare a lidi post-ambientali.
Un disco che rivela al mondo le possibilità di questo musicista nemmeno venticinquenne, pienamente a suo agio nello spaziare tra i generi senza scadere qualitativamente. Più deboluccio nella prima parte, dove forse il nostro si mostra un po’ troppo debitore di altri modelli, ma la seconda parte riscatta in pieno le pecche della prima, donandoci un sound che, pur guardando altri lidi, è totalmente personale. Un futuro radioso aspetta il musicista siciliano, stavolta non posso sbagliare.
Voto: 9
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