Di Alessandro Gentili
GIORNALISMO MICROSCOPICO E OCEANOGRAFIA
Centinaia di uscite ogni giorno sul pianeta, pubblicazioni sfornate a ritmo allucinante e sfrenato da etichette discografiche di ogni sorta e dimensione, mosse da ideali nobili o da mere considerazioni economiche non importa, il mainstream più sordido e deplorevole sulle spalle o l’underground più genuino che ci sia nel cuore, non importa.
La domanda che mi pongo, la domanda che pongo alla stampa musicale tutta è questa.
Hanno più senso le recensioni dei singoli dischi? Ha più senso arrancare, perchè di arrancare si tratta, dietro al marasma di releases che mese dopo mese invadono le redazioni delle riviste, delle webzines e delle fanzines del Globo intero?
Si potrebbe rispondere che sarebbe sufficiente selezionare le uscite da recensire, dando peso alle più importanti. Ma importanti secondo quali criteri? E tralasciando pubblicazioni ritenute meno rilevanti, non si corre il rischio di commettere, a posteriori, errori imperdonabili? Si potrebbero trovare mille soluzioni, e si potrebbero criticare gran parte di queste.
Ma il discorso non è questo.
Il problema è la concezione dell’oggetto “recensione”, della quale viene recepita solamente la funzionalità immediata. Recensione = strumento più o meno utile, più o meno autorevole, per stabilire la bontà di un disco, per decidere se ascoltarlo e/o comprarlo. Recensione = annuncio pubblicitario.
Ma allontanandosi dal quadro, aguzzando la vista, si può cogliere l’immagine complessiva: ovvero. Le singole recensioni, i singoli articoli, le singole interviste, sono i colpi di pennello che compongono un dipinto chiamato “storia della musica”. Una storia fatta di epoche, di contesti sociali, di scene, di movimenti, di legami con altri ambiti culturali e sociali. E oggi questa visione si sta perdendo, si perde sempre più l’immagine d’insieme, tutti concentrati sulle singole, microscopiche, pennellate.
Il problema forse deriva dal fatto che non ci sono più punti focali sui quali concentrare l’attenzione, o perlomeno non riusciamo a distinguerli.
Un esempio banale per spiegarmi meglio: in un pomeriggio di rapimento dalla mia maniacale voglia di schematismo, che mi spinge a listare e classificare qualsiasi cosa mi passi sottomano (altro che “High Fidelity”…), sono entrato nel tempio delle classifiche musicali, ovvero il sito web Rate Your Music, e mi sono messo a preparare le mie personali top ten anno per anno, scendendo a ritroso fino a un paio di decenni fa. Commenti a parte. Insomma, riguardandole ora, se pesco il 10° della lista di un anno a caso dello scorso decennio, con grande probabilità quel disco surclasserà, a mio modesto parere, il 90% dei dischi in classifica in tutti gli Anni Zero. Oppure, se prendessi Solex, i Queens of the Stone Age, Cat Power, !!!, Dirty Projectors, Animal Collective, tra gli autori degli ultimi miei “dischi dell’anno”, e li trapiantassi nei Novanta, sono così certo che figurerebbero in top ten?
Forse non significa niente, forse sono soltanto i miei gusti, però provoco: ci sono dischi che hanno lasciato un segno indelebile nella storia musicale di questo decennio? Ci sono dischi di oggi che verranno ricordati e glorificati tra trent’anni?
Fino a dieci anni fa, prima dell’avvento di internet, della masterizzazione a portata di tutti, avevamo a che fare con un laghetto di musica, e analizzarlo goccia a goccia era sì difficile, ma possibile. Oggi quel laghetto è diventato il Pacifico. O meglio, un oceano con le dimensioni del Pacifico, ma fatto in gran parte di acque molto meno pericolose, onde più basse, calma piatta. I tesori scarseggiano.
Probabilmente ci sarà una rivalutazione in futuro, un ripescaggio storico di gemme oggi disperse o sottovalutate. Probabilmente è soltanto una questione di prospettiva, oggi che in questo oceano ci siamo immersi e non lo osserviamo dalla riva.
Ma per raggiungere la riva bisogna remare, bisogna impegnarsi a capire come vanno le cose, da dove partono, come procedono e dove vogliono/possono arrivare. La storia della musica la fanno i musicisti, ma sono i giornalisti, gli addetti ai lavori fuori dal palco a scriverla.
Non sarebbe meglio per tutti – sia per chi scrive sia per chi legge – affrontare questioni più ampie – implicazioni sociologiche, influsso di internet, la metamorfosi dei supporti musicali, l’analisi di scene e luoghi e contesti musicali, invece di analizzare passivamente disco per disco, mese dopo mese, senza valutare coscientemente ciò che lo circonda?
Chi ama conoscere la storia della musica, chi ama comprendere le evoluzioni, gli sviluppi, l’emergere di novità capaci di evadere dal semplice intrattenimento e influenzare la società tutta (il jazz, il movimento hippie, il punk), non può chiudere gli occhi: non si sa dove si sta andando, e la capacità di definire si fa sempre più debole.
Porsi domande e tentare di dare una risposta potrebbe essere un primo passo.