Di Alessandro Trevisani
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Ho molto apprezzato ‘Happy family’ di Gabriele Salvatores. Ero entrato al cinema in preda a un pregiudizio negativo, ma con nell’animo la voglia birichina di ribaltarlo. Avevo sentito parlare di “film estetizzante” e di “esercizio di stile fine a se stesso”. Il film mi era andato dritto sui coglioni la sera che Salvatores lo ha presentato da Fabio Fazio, illustrando il suo amore per Milano, ma aggiungendo, con snobismo insopportabile, di avere ripreso la città solo dal primo piano in su, perché sennò sarebbe troppo brutta. Del resto sul Corriere della Sera era apparsa una stroncatura di Paolo Mereghetti, che analizza il film solo come gioco narrativo-pirandelliano: il protagonista è uno scrittore che nella fantasia si mescola ai suoi personaggi, i quali reclamano spazio crescente nella sceneggiatura. Mereghetti scrive: “sembra di essere capitato all’interno di un servizio per riviste di arredamento, dove c’è tutto ce qu’il faut ma manca una cosa fondamentale: la vita!”.
E così mi aspettavo un filmetto sterile, un giochino di prestigio che non vale il prezzo del biglietto. Clamoroso, anche se preventivabile, il ribaltamento del mio giudizio alla fine. Evviva Gabriele Salvatores, che ha diretto un film dove uno scrittore (Fabio De Luigi) in cerca di ispirazione mette in scena una serie di personaggi in preda alla paura: di puzzare, di morire, di essere gay, di non piacere più al proprio marito. Ma la vita, alla fine, vince eccome. Nel personaggio di Fabrizio Bentivoglio, che scopre di avere il cancro ma decide di morire felice. In quello di Caterina (Valeria Bilello), che va incontro senza tentennamenti all’amore del suo autore-vicino di casa. In quello di Margherita Buy, che insiste per invitare a cena Ezio, nonostante lo abbia conosciuto in una situazione imbarazzante (un incidente provocato da lei). Baruffe e problemi non mancano: Filippo vorrebbe sposare Marta, ma si accorge di essere gay, Ezio non riesce a lasciarsi andare all’amore per Caterina, Carla Signorisi interpreta una mamma nevrotica e irrisolta. Ma la vita vince: il finale è sereno, pacificato, e i personaggi attraversano scene splendide e coloratissime, per finire tutti quanti, e molto volentieri, nel golfo di Panama, dove Vincenzo-Bentivoglio sta spegnendosi, a dire il vero con una certa allegria, in un ospedale. Bene, Ezio ha finito di scrivere il suo film. Esce di casa e incontra Caterina: scopriamo così che il bravo scrittore non aveva fatto che mettere in scena la sua bellissima vicina di casa. I due capiscono di piacersi, e fra mille tentennamenti di sapore alleniano decidono di frequentarsi. Ma entriamo ora nel merito della faccenda: la bellezza, questa stronza ingrata entità. E’ possibile fare un film che è un inno alla bellezza, perdipiù ambientato a Milano?
“Sto bene. Sto veramente bene”, scrive Ezio al principio della sua sceneggiatura. E perché no? Perché uno non dovrebbe raccontare che la vita è bella, i problemi si risolvono, e anzi parecchi di essi non sono altro che seghe mentali (e il tema ricorre ironicamente nel film)? Perché non raccontare l’amore, la pace dei sensi, l’eleganza di una città perlopiù bistrattata (spessissimo a ragione) come Milano? La bellezza dei palazzi, degli interni, delle strade. La bellezza del mare, dove Vincenzo-Bentivoglio e il papà di Marta (Diego Abatantuono) scappano a godersi una bella, lunghissima barca. Uno direbbe: eh no, ci vuole la “peripezia”, la disavventura, l’impegno. Un personaggio, una storia, vivono di problemi, anche sociali, da superare, da risolvere. Ricordate il finale di Mediterraneo? Farina resta nell’isoletta dell’Egeo con Vassilissa, Montini se ne torna in Italia, a fare il Paese nuovo, dopo la fine del fascismo e della guerra. Qui non si tratta di stabilire chi ha ragione fra Montini e Farina. Il fatto è che Farina ha trovato ciò che cercava (e il tema del “trovarsi” è posto con discreta ironia da cima a fondo, in Happy family). Perché tornare, allora, in Italia? Per sentirsi impegnati, per combattere, per lottare? Ok. Ma perché lottiamo? Perché c’è la politica?
Alcuni, specialmente a sinistra, ma pure a destra, pensano che la società venga prima dell’individuo, quest’ape operaia che trova il suo posto solo nell’alveare e per l’alveare. Bene, Salvatores ieri sera, al cinema Kursaal di Porto Recanati, mi ha detto: “Col cazzo! La società, lo stato, nascono ed esistono per la nostra felicità! Per goderci le cose belle!”. Non so se lo volesse dire, ma mi piace immaginare che lo abbia voluto fare. Perché sarebbe ora che qualcuno dicesse, senza alcuna vergogna, che va bene: combattiamo Berlusconi, l’ingiustizia, la cafoneria, l’egoismo avvizzito. Pensiamo agli altri, battiamoci per gli altri, ok. Ma perché lo facciamo? Quando gli altri saranno guariti, stipendiati, accasati, che cosa faranno? Si batteranno, a loro volta, per gli altri? Certo, magari. Ma alla fine ci si batte per stare bene. Per far sì che noi e gli altri possiamo star bene. Per il pane, ma non solo perché sia bello mangiare il pane. Ma perché a pancia piena possiamo goderci il profumo delle rose.