(Splasch Records 2010)
Un veterano del fagotto qual’è il nostro Rino Vernizzi lo ritroviamo più in forma che mai con questo saggio sui tanti linguaggi limitrofi al mondo colorato del jazz, registrato in fasi differenti e quasi sempre poggiato sulla forma prediletta del quartetto. Le uniche eccezioni, un’ammaliante title track swingante e aggraziata nel segno degli anni ’50, suonata col supporto della Andrea Berlino String Orchestra, e tre spunti ragtime in chiusura provenienti dai primi del 900, dove Vernizzi, sotto la fantomatica dicitura di Bassoon Quartet, si destreggia con la sovraincisione di quattro parti distinte del proprio fagotto, ricordando di seguito gli esperimenti pionieristici di ‘saldatura’ congegnati dal grande Lennie Tristano. Il cuore di “Green Moon”, per il resto, è un concentrato frizzante di originali con l’aggiunta di qualche standard, esaltante come nella svolazzante esecuzione di Thriving from a Riff dello spericolato Bird, un po’ meno nell’apertura al pop-world tramite la rielaborazione delle beatlesiana Yellow Submarine. Il timbro mordace e vigoroso del fagotto, una perla incontrata raramente come strumento leader nell’habitat dell’improvvisata, permea e centra con efficacia i nostri sensi uditivi mediante le ispirazioni monkiane fiorite dal mood bop della coppia Memory / Entropia, dalle capillari disarticolazioni armoniche di Black Woman, titolo e humus non da poco colemaniani, negli acuti controtempi di White Lapsus, oppure nei richiami a Gustav Mahler spuntati con Rehlam, impastati con «un’allucinata parodia di Fra Martino». Meno riuscita l’esotica prova mediterranea di Lilì, infarcita con scarso senso della misura da una sortita chitarristica classica, sin troppo all’acqua di rosa, evocante il periodo meno brillante del George Benson filo CTI.
Voto: 7
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