Di Marco Loprete
Tra i romanzi dedicati a quell’immane tragedia che è stata l’Olocausto, “Il nazista & il barbiere” è sicuramente il più spiazzante. Scritto nel 1968 da Edgar Hilsenrath, classe 1926, ebreo tedesco che ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza della deportazione (dal 1941 al 1944 fu prigioniero nel ghetto rumeno di Mogilev-Podoloski assieme alla sua famiglia), inizialmente fu pubblicato solo in America ed in Inghilterra. In Germania, il carattere grottesco e provocatorio dell’opera le costò un’ostracismo editoriale che si concluse solo nel 1977, grazie al successo che nel frattempo essa aveva maturato all’estero e soprattutto all’intercessione di uno dei massimi scrittori del ‘900, Heinrich Böll, ammiratore della prosa di Hilsenrath. Ora, a distanza di quasi trent’anni dalla prima edizione targata Mondadori, “Il nazista & il barbiere” viene riedito dalla Marcos y Marcos, in una traduzione basata sulla versione tedesca dell’opera.
Protagonista del racconto, Max Shulz «figlio illegittimo, ma ariano purissimo, di Minna Schulz», una prostituta, con un patrigno che si diverte a violentarlo sin dalla tenera età di sette mesi. Suo compagno di giochi ed amico fraterno, l’ebreo Itzig Finkelstein. I due sono fisicamente molto diversi: Max, pur essendo ariano, è moro, col naso aquilino e gli occhi da rospo; Itzig, invece, è biondo con gli occhi azzurri. I due si frequentano assiduamente, al punto tale che Shulz comincia a lavorare nell’elegante salone di barbiere del padre dell’amico (ma anche il patrigno ha una bottega, sebbene decisamente meno raffinata), frequenta la sinagoga ed apprende la cultura yiddish. L’ascesa al potere di Hitler cambia le carte in tavola: Max aderisce con fervore al progetto politico del futuro genocida. Entra a far parte delle SS e fa carriera come sterminatore nel campo di concentramento di Laubewalde dove, ironia della sorte, ritrova la famiglia Finkelstein, della quale si “occupa” personalmente. Ma il crollo del III Reich è dietro l’angolo e così, nel gennaio del 1945, Shulz ed i suoi camerati sono costretti a battere in ritirata, pressati dall’avanzata dell’Armata Rossa. Sopravvissuto ad un’imboscata dei partigiani, il protagonista trova rifugio in una baracca nella foresta polacca, nella quale vive una vecchia signora che, grazie ad un misterioso intruglio, lo trasforma nel suo schiavo sessuale e lo sottopone ad ogni sorta di sevizia. Riuscito a fuggire con il suo bottino (un sacco pieno di denti d’oro di cui il nostro s’è impossessato abbandonando i suoi commilitoni morti nell’agguato partigiano), Shulz riesce a tornare in Germania e, in una Berlino ridotta ad un cumulo di macerie, decide di cambiare identità: d’ora in poi sarà Itzig Finkelstein, scampato per miracolo ad Auschwitz. Per rendere più credibile la propria trasformazione, si fa circoncidere e tatuare sul braccio il caratteristico numero che contraddistingueva i deportati. Non solo: il Shulz, dopo essersi dedicato al contrabbando nel mercato nero, entra in contatto con un gruppo di ebrei superstiti, diventa un fervente sionista e decide di partire per la Palestina, alla conquista della “terra promessa”. Giunto in Terra Santa apre un salone di barbiere (che, ovviamente, chiama come quello del padre del vero Finkelstein, “L’uomo di mondo”), conduce un’esistenza tranquilla, fino alla morte naturale.
Dal riassunto della vicenda paradossale narrata da “Il nazista & il barbiere” si capisce facilmente come Max Shulz sia uno tra i più complessi ed affascinanti della letteratura del ‘900, un individuo scisso, alienato, uno schizofrenico la cui parabola esistenziale simboleggia non tanto la banalità del male (Shulz è in effetti un esserino mediocre ed insignificante), quanto piuttosto la parabola storica di un’intera nazione (la Germania) e la frustrazione di tutti i rancorosi e gli oppressi. «Volevo una vittima per ogni ferita, una vittima per ogni derisione, e non m’importava un corno se a ferirmi fosse stato Dio o il mondo. Oggi lo capisco, perché i nodi che avevamo sputato nell’aria fossero ricaduti a caso su vittime innocenti. Non avevamo preso la mira: c’eravamo limitati a sputare». Davanti ai suoi occhi spesso compaiono le immagini delle centinaia di ebrei che ha massacrato nei modi più atroci possibili; in alcuni passaggi del suo diario cerca persino di giustificarsi con l’amico Itzig, dicendo di aver semplicemente “seguito la corrente”. Sul finire dell’opera arriva anche a confessare ad un vecchio giudice ebreo la sua reale identità, ma, culmine della beffa, la sua sincerità viene scambiata per la follia di un uomo scampato per miracolo alla più atroce delle morti. Ma quella di Shulz non è una reale ricerca di perdono. Perché egli sa benissimo che per ciò cha ha fatto non può esserci alcuna redenzione. E forse proprio in questo sta la sua punizione: nell’impossibiltà di espiare.
La vita dello sterminatore/vittima Shulz/Finkelstein è raccontata da Hilsenrath con uno stile sobrio, assolutamente anti-retorico, che inocula in un registro fondamentalmente grottesco dosi di espressionismo e, soprattutto, di freddo e glaciale distacco quando si tratta di descrivere le sevizie cui furono sottoposti gli ebrei nei campi di concentramento.
Uno dei libri più disturbanti della storia della letteratura. Un capolavoro assoluto.
Link: Editore Marcos Y Marcos, 2010