(Valvolare Records/ Bloodysound Fucktory/ Stonature Records/ Lemmings Records 2008)
Sul loro MySpace dicono di essersi formati nel 2000 a. C. in un sobborgo di Chiaravalle, cittadina rurale del Tennessee. Definiscono se stessi «quattro sbandati» e la loro musica un incrocio di indie, pop e punk che non si prende mai sul serio («o forse sì… chi lo può sapere…»), «un contenitore di storie di ordinaria e deprimente demenza quotidiana, di nascita e morte, di improbabili ultimi desideri… prima che il male ci distrugga…», il tutto proposto con «estremo irrealismo e studiata superficialità…».
Insomma, come si può facilmente intuire da queste poche righe di presentazione, non ci troviamo certo di fronte alla canonica pop-rock band. Simone Re (voce, chitarra, tastiera, synth), Riccardo Franconi (chitarra, voce, synth), Marco Mancini (basso) e Riccardo Latini (batteria, drum machine) si divertono un mondo a giocare con ritmi e sonorità aggressive, nevrotiche, ossessive, oscillando tra il post-punk destrutturato ed isterico di Devo e Talking Heads (Casa Comenji, Bertò 131, St-N-N-N-, Church of Fonzi e Zuber Buller) ed il post-rock (Evaniscente e Didier e il Suo Cesto di Droga), senza dimenticare qualche spunto noise.
Il disco è un condensato di umori esagitati, isterici, versi demenziali, schitarrate ora possenti ora stranianti ed innesti elettronici, che coagulano in brani dall’andamento imprevedibile, frammentato. Eppure la follia del quartetto è lucida: c’è sempre un senso preciso della geometria in queste otto tracce. Gli stessi testi mettono in scena, con la scusa dell’approccio demenziale, riflessioni profonde sull’alienazione dell’uomo nella società postmoderna o considerazioni di natura “politica” (in Church of Fonzi, ad esempio, si parla dell’atteggiamento di chiusura della Chiesa nei confronti della sessualità).
Non siamo, insomma, difronte ad un’accozzaglia di suoni o frasi buttati lì a casaccio per impressionate l’ascoltatore più sprovveduto. Che i nostri abbiano l’ambizione e l’intelligenza necessaria per supportarla ce lo dimostra forse meglio di altre la splendida Didier e il Suo Cesto di Droga. Qui, il connubio tra musica e parole (il testo – recitato – è una sorta di rilettura di “Cappuccetto Rosso” in chiave agghiacciante e demenziale al tempo stesso) crea un’atmosfera tesa, da incubo, che non può non richiamare alla memoria i Massimo Volume e certi altri act della scena alternative rock italiana (non a caso, nel pezzo è presente un featuring alla voce di Giulio Favero dei One Dimensional Man e, soprattutto, de Il Teatro degli Orrori).
Tirando le somme, “The Best Love Songs of the Love for the Songs and the Best” è un disco intelligente e coinvolgente, l’opera di una band dotata di personalità e grinta da vendere. Il futuro, per i quattro marchigiani, non potrà che essere ricco di soddisfazioni.
Voto: 7
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