Sons Of Klà ‘La Decade Deu Disaju’


(Autoprodotto 2010)

Quattro anni di vita e già terzo lavoro sulla lunga distanza per i Sons Of Klà, entità oscura del sottobosco musicale marchigiano che avevamo con piacere notato negli scorsi anni con l’omonimo esordio al fulmicotone datato 2007 e lo spumeggiante “Of Soul Of March” dello scorso anno.

Demian Maravich e Bread Milk tornano con la loro delirante miscela post-tutto assolutamente inafferrabile e inclassificabile ma senza per questo dare l’impressione di essere meno ispirati che in passato.

Schegge impazzite, pattern sonori multiformi, corto circuiti vorticanti si compenetrano sorprendendo l’ascolto di continuo, azzannando l’orecchio e tirandolo a sé. Funky, elettronica, rock grungettone, folk, psichedelia fluttuano aleggiando sopra le teste del duo da Montegranaro, che si diverte da matti nei tre quarti d’ora dell’album esplorando tutti i lati della schizofrenia umana: la desolazione (o meglio il “disaju”), il delirio, l’allucinazione, la gioia isterica, la riflessione.

L’apertura dell’album è sinistra. 6 January incorpora diverse istanze: dilatazioni post-rock, battiti tribali, un canto riverberato e processato conferiscono un’aurea ectoplasmatica al tutto. Ma appena parte Fever cambia tutto: con il suo groove poderoso è impossibile non iniziare a far ondeggiare la testa, condotti dalla nenia ripetitiva di Demian e Bread. Colore alterna sprazzi oscuri di vibrazioni radioheadiane (impossibile non pensare all’irresistibile linea di basso di The National Anthem da “Kid A”) a singulti funkeggianti da disco, ma ecco arrivare Disaju, sospesa nei mondi surreali di un Daniel Johnston che prende coscienza di sé e del suo malessere. L’irriverente ballata acustica Ga-Low scopre la sfaccettatura più intimista dei nostri. Ma i 3 minuti passano veloci ed ecco l’elettronica industriale di Last Night on Earth, che nel finale si trasfigura in un rock’n’roll anni ’50. Little Jaills rilegge in maniera personalissima e giocosa la tradizione funky-soul, prima che Quiproquorum faccia di quest’ultimo un divertissement postmoderno che riempirebbe d’orgoglio Genesis P-Orridge. Sissior Tool prende a calci l’hard rock riducendolo a sintesi elettronica. L’apice del disco arriva con Souther Piano Will Tell You The Truth, suite malevola tra alienazioni ripetitive figlie dei Suicide ed ancora pattern industriali a-là Throbbing Gristle che si apre in un finale solare che non può che ricordare il crescendo finale di Simpathy For The Devil dei Rolling Stones con tanto di cabasa a suggellare il parallelo. Difficile tenere alta l’attenzione dopo un picco del genere, ma i due ci riescono con la parodia astrologica da dancefloor Oro’scopo e la conclusiva Make Me Blue, galoppata ribollente e frammentaria, dove è un basso gorgogliante a farla da padrone.

Anche stavolta i Sons Of Klà colpiscono nel segno, disegnando un lavoro meno dispersivo dei precedenti ma senza perdere in inventiva. Animali da studio più che da palco (rarissime le loro apparizioni in pubblico), continuiamo a chiederci cosa aspettino i produttori dell’underground italico a metterli sotto contratto prima che la loro carica e inventiva vada dispersa.

Voto: 8

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