Di Alessandro Colò
Bisogna riconoscerlo, raramente ci si imbatte in romanzi di scrittori italiani dal respiro così internazionale, nei quali risulta ancora più difficile riuscire a coniugare, come in questo caso, la scorrevolezza della struttura lessicale con temi “extracolti” senza cadere mai nell’autoreferenzialità.
L’autore ha quindi il merito di rischiare molto, puntando sulla scelta di suddividere la storia in molti stili narrativi diversi alla stregua di sequenze cinematografiche d’avanguardia. Scorrono davanti agli occhi i fotogrammi concatenati della vita e delle opere di Rafail Dvoinikov e del suo giovane intervistatore Ethan Prescott; il primo, geniale compositore russo perseguitato dalla cupa mediocrità del regime, che racconta il suo passato; il secondo, dotto insegnante americano anch’egli compositore, con il sogno di poter ascoltare e palesare al mondo le gesta del suo “Maestro ideale”. Sullo sfondo di queste due figure di spicco ruotano altri pochi e azzeccati attori non protagonisti come il perfido Galavamov, gerarca vendicativo privo di talento con il potere di vita o di morte sugli artisti del panorama musicale russo, Carl, geloso e scrupoloso compagno del professor Prescott alle prese con i primi segni del decadimento fisico, e Polina, eterea e imperscrutabile giovane traduttrice e assistente del Maestro russo che meriterebbe di continuare la propria esistenza in un romanzo a sé. In realtà sembrano essere proprio queste figure il segreto del meccanismo che muove il racconto che, come dicevamo, spazia tra vari generi senza però riuscire a garantire la stessa resa; si passa infatti dalle vette dei verbali degli interrogatori del maestro russo, che riescono a trascinare il lettore in un clima cupo e ineludibile da “Le Vite degli Altri” con annesso senso d’impotenza, per scendere ai Viaggi Musicali che risultano essere troppo astrusi per riuscire ad apprezzarne le giuste, neanche troppo velate, critiche al “sistema” musicale; se fosse un film quindi parleremmo di un montaggio non sempre all’altezza che smorza l’empatia con la trama, ti cattura ma non ti trascina. Imperdibile invece l’intelligente uso delle note a piè pagina che aggiungono un tocco necessario d’ironia e leggerezza, questo si, che pervade tutto il racconto.
I melomani saranno certamente rapiti da quest’opera densa di citazioni da collezionisti di musica classica e ricca di aneddoti da antologia dei compositori, e anche chi non mangia pane e Rachmaninov riuscirà comunque a coglierne l’eleganza letteraria magari non comprendendo pienamente qualche passaggio. Ecco, garantisco che per questa seconda categoria sarà un po’ come ascoltare la Prospettiva Nevskij di Battiato. Più che di un romanzo possiamo quindi parlare di un lavoro artigianale che come ogni buon prodotto nato dalla mano di un maestro è unico e imperfetto: grazie a Dio non vi si incontrano investigatori burberi, la trama non si dipana tra i vicoli di una Bologna che rimpiange di essere stata e di non essere più, non c’è un lucchetto e una chiave buttata nel Tevere, l’intreccio non sembra ciclostilato da Hornby o da Palahniuk e non c’è nemmeno l’onnipresente nonna anarcoinsurrezionalista…era ora!
La citazione di Mozart riportata in apertura è la sintesi perfetta del gusto che rimane in bocca una volta chiusa l’ultima pagina, ma per non togliervi il piacere di leggerla stampata, concludo invece con un’affermazione di Sostakovic che sarebbe stata appropriata anche per il personaggio di Dvoinikov: “Le immagini melodiche possono essere molto varie, come molto varia e ricca è la realtà degli uomini che ci circondano.”
Romanzo importante, maneggiare con cura.
Link: Claudio Morandini, Rapsodia su un solo tema – Colloqui con Rafail Dvoinikov, Lecce, Manni Editori, 2010