@ Roma Vintage, Roma – Giovedì 16 Giugno 2011
Di Damiano Gerli
Occasione speciale quella che ci ha visto riuniti al Roma Vintage, all’interno della gradevole cornice di Parco San Sebastiano a Roma: il primo concerto ufficiale in Italia degli Ash. In realtà la band irlandese ci aveva fatto già visita qualche anno fa, a supporto degli U2, però stavolta invece sono il piatto principale.
Vengono accompagnati dai Mystery Jets, gruppo indie rock inglese per cui c’è una discreta attesa, nonostante fossero già venuti a Roma qualche mese prima; anzi, sembrerebbe quasi che gran parte del pubblico sia accorsa principalmente per veder loro. Il feeling è in parte confermato dal fatto che fin da subito il gruppo capitanato da Harrison e Rees viene accolto con gran calore e tutti i pezzi vengono cantati dal pubblico, cosa che non succederà purtroppo per tutti quelli degli Ash.
I Mystery comunque fanno una buona figura, mettendo giù una setlist interessante, con gran parte degli ultimi singoli più qualche altra sorpresa, finendo col suonare una decina di pezzi circa, decisamente più di un qualsiasi gruppo spalla.
E’ già tardino quando gli Ash salgono sul palco, in un’inedita formazione a tre con il batterista di riserva Alan Lynn (in prestito dai Lafaro), in quanto McMurray è ancora in “congedo parentale”. Non è certo una novità che i nostri abbiano una certa passione per le ménage à trois, ma è il primo tour senza secondo chitarrista di supporto, con il solo Wheeler a doversi barcamenare tra chitarra ritmica/solista e voce. Decisamente un bel lavoraccio.
Il caro Tim, con indosso una bella maglietta dei Misfits, però non si fa cogliere impreparato e fin dalla scoppiettante partenza con Lose Control, la differenza è impercettibile e il sound del gruppo irlandese rimane fluido e compatto come sempre.
Nonostante il tour fosse ufficialmente l'”A-Z singles”, dei singoli nuovi hanno fatto la comparsa solo quattro, con un deciso accento posto su Return of the white rabbit, pezzo decisamente insolito per la band ma che risulta tremendamente orecchiabile. Il resto è stato pescato in maniera generosa da ‘1977’ (con la tragica eccezione di Goldfinger, tristemente smarrita), ‘Free All Angels’ più un paio di comparsate da ‘Nu-clear Sounds’ e ‘Twilight of the innocents’, con l’ottima title track.
Purtroppo il tempo per i nostri è stato oltremodo tiranno, con nessuna possibilità di uscire dal seminato e magari proporre qualcosa da ‘Trailer’ che ben si sarebbe adattato alla rockettara e vivace formazione a tre. Invece, l’encore si è limitato a due canzoni: un’Arcadia cantata piuttosto male da un divertito Wheeler e una goduriosa versione della classica Burn Baby Burn.
In conclusione, è proprio il caso di dire “meglio tardi che mai”, vedere gli Ash anche alla veneranda età di 27 anni è sempre un piacere. Loro si confermano un gruppo compatto che ancora riesce a divertirsi e far divertire proponendo pezzi che si portano i loro discreti annetti sulle spalle.