(Thingstoburn 2011)
Se si dovesse giudicare un disco da quello che viene solitamente chiamato packaging, e che gli appassionati amano definire cura editoriale, l’ep di esordio dei So.Lo sarebbe annoverato tra i migliori lavori del 2011: una fodera di stoffa nera, decorata a mano da schizzi di vernice bianca à la Pollock, chiusa da una lampo, che racchiude al suo interno una busta di cartone bianca serigrafata da schizzi di colore nero, e alla fine di questo gioco di scatole cinesi, il disco. Particolare nient’affatto banale, si dirà: giustamente, ma è una soddisfazione per gli occhi per l’ascoltatore e un motivo di vanto per l’artista aver creato un piccolo gioiello, tanto più prezioso quanto più raro, visto che il disco viene tirato dalla Thingstoburn Records in 100 copie.
Il disco, si diceva: non è quello che ci si aspetterebbe da tanto “preambolo”. Non solo perché qualitativamente si tratta di una lavoro molto onesto, energico, piacevole, ma che non sposta di molto gli equilibri artistici dell’indie italiano; ma anche perché a differenza della sua veste si presenta molto grezzo, in senso positivo si intende, immediato, sfrontato.
Siamo infatti nei territori di un noise che guarda in effetti dritto dritto agli anni ’90, sotto l’egida tutelare di Sonic Youth, Shellac e le ricette in fase di (non) produzione tipiche di uno Steve Albini. I So.Lo, essenziale duo veneto composto da Elvis Marangon alla chitarra e alla voce e Ilenia Conte ai tamburi, sfoderano un rock diretto, di impatto e soddisfacente. Un flusso slabbrato e duro, in cui le soluzioni, pur ridotte comprensibilmente all’osso di arrangiamenti scarni, evocano un’intensità a volte davvero pregevole.
Il noise di apertura di Kirchoff, tutto giocato tra i feedback chitarristici di Marangon e i marziali stop and go delle percussioni, non di rado vero elemento solistico del duo, dichiara subito le intenzioni valvolari della band, che tuttavia, nella successiva X-man, sfodera un ritmo ben più coinvolgente, e un canto quasi urlato, ai limiti dello screamo, che non può non richiamare alla mente le vorticose timbriche dei mai troppo compianti At the drive-in, complice anche la scelta della lingua inglese.
Il riff pungente e nervoso e le incursioni quasi marziali di Hands, come sporgenti all’infinito su un limitare claudicante, trascinano il brano in una fuga tra le esplosioni soniche di scuola Trans AM e i primissimi Blonde Red Head, mentre l’incedere rallentato e malato di Hyper-m conturba e prepara al meglio il terreno alla squadrata e rutilante Ttb, scortecciata marcia in crescendo, forse il miglior brano del lotto, vicino ai trascinanti pentagrammi dei conterranei Il Teatro degli Orrori.
Il copione post-core viene ribadito senza troppe variazioni da 3/4, prima che Refkim, ultimo tributo al genere, sospinga con non esagerata originalità l’ascoltatore verso la fine del disco. Che sicuramente verrà apprezzato da chi cerca ritmiche granitiche e riff nevrili, senza attendersi trame di particolare complessità o soluzioni troppo sperimentali. Anyway, play it loud.
Voto: 6
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Autore: sal.passaretta@gmail.com