(Not noise of trouble 2012)
Diviso in due cd, per un totale di novamta minuti, questo dico dei Bloody Route si dipana lungo le linee del jazz più sperimentale e free. Il gruppo è formato da Marco Colonna Caludio Martini ai fiati, Luca Corrado al basso e Cristian Lombardi alla batteria.
Il lavoro è un omaggio ai migranti che giungono in Europa, con l’intento di rileggere, in chiave jazz, il miscelarsi dei linguaggi che l’esperienza migratoria comporta, senza pietismi, né tantomeno buonismi in salsa “veltroniana”.
Le dodici composizioni sono tutte molto complesse e variegate, con durate che vanno dai 4 minuti e 5 secondi agli 11 minuti e 10 secondi. Ogni brano dunque presenta al suo interno diversi cambi di registro stilistico, con accelerate e rallentamenti più o meno improvvisi alla stessa stregua degli Zu e del John Zorn di “Naked city”. In effetti la stessa tipologia della formazione con basso, batteria e fiati è simile a quella del trio romano, tuttavia, questo quartetto si lascia andare a sonorità più sperimentali soprattutto nel finale di Slave of wekness e in All things fall apart. I Bloody Route poi riescono ad essere lugubri nell’eterea e straniante Future in the past e ancora di più in Dessert of dreams. Catartiche invece sono le spinte in velocità presenti in Honor ed i fraseggi funkeggianti di Born in captivity – Colonialism phase 2.
Forse per i jazzisti molte cose sono già sentite, ma questo disco conserva il valore della voglia di sperimentare e di rischiare.
Voto: 8
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