(Discus 2011)
Il precedente “Ghosts Of Gold” ci aveva stupito non
poco.
Un raffinato gioco ad incastri, suono/voce, dal piacevole
taglio avant.
“Tales Of Finin” mantiene intatta
l’angolazione espressiva, proponendo incisive varianti, rispetto la
precedente opera.
Dalla formula a due, si passa alla formazione
variabile.
Le fasi digitali si attenuano, lasciando campo libero
alle digressioni strumentali.
A guadagnarne è la forma
canzone (una certa forma…).
Evoluta, d’inusuale aroma popolare e
caparbiamente trasversale.
Un doppio cd, per diciassette intensi
brani.
Dove la sperimentazione, lungo percorsi di scintillante
creatività, flirta con refoli d’affilata ironia
esecutiva.
L’azione emana lucidità e rilassatezza, ma non
fatevi ingannare, il loro, è un taglio radicale, in costante
equilibrio fra suggestioni di un tempo lontano (free, funk, il jazz
ed apparizioni canterburiane), di uno meno lontano (il post dopo il
punk e vaporizzazioni art/wave), di uno in divenire (il risultato,
ammirevole e futuribile).
Ma per favore, toglietevi dalla testa,
sghembi ed acidi motivetti, queste son canzoni da brivido (d’istinto
raffinato).
Gli eccessi fuori dalla porta.
Julie Tippetts
alla voce e campane, Martin Archer al laptop ed una miriade di
strumenti, inoltre: Chris Sharkey (chitarra), Charlie
Collins (batteria, un passato al sax nei Clock DVA di
“White Souls In Black Suits” e “Thirst” ),
Paul Schatzberger (violino), Beatrix Ward-Fernandez
(violino), Steve Dinsdale (batteria), UTT (giradischi)
e James Archer (batteria e basso programmati).
Sgroppate
ritmiche, bassi bassissimi, leggero crepitar digitale, risuonar di
corde, cut up.
La voce della Tippetts, calibratissima, ad esplorar
ipotesi complesse, senza strappi ne evoluzioni gratuite.
Un
balsamo lenitivo “Tales Of Finin”, bizzarro, acuto,
malinconico.
Un piccolo, benevolo miracolo.
Voto: 8
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