(Innova 2012)
Opera struggente, “Ghostly Psalms”, dell’inglese
Philip Blackburn.
Ribollente di vita.
Fra caos ed
ordine, decadenza occidentale e bolle di panica serenità
orientale.
Sogni, mare, vento che spazza, polverose colline dove
il verde si abbarbica, ostinato e nodoso.
Parole, cori, organi,
field recordings, ricerca armonica squassante.
Il porto di Duluth
(Minnesota), la sua vita, le sue sirene, campane, fresatrici in
azione.
Strumenti acustici che s’organizzano con l’ambiente
circostante, per un flash-mob, commovente e luminoso.
Liturgia
ossidata, misterica e speranzosa (Duluth Harbor Serenade).
Ansia,
percorsi fuorvianti, vibrare organico, con l’adrenalina trattenuta a
stento.
D’estrazione post industrial, dove le meccaniche
nichiliste, cedono di schianto ad un silenzio antico, d’isolato,
fessurato splendore.
Corni francesi, tromboni, Ellen Fullman,
violoncelli, arpe eoliche.
Muti, fra le rovine di un’abbazia
ingoiata dal verde (dentro, fuori, sopra, fra uno spazio e
l’altro).
Dronanti sezioni, da reclinar il capo.
Lo stordimento
Niblock, esiliato dalla metropoli.
Digitale intaccato dalla
salsedine, poco più di un martello.
Tu, solo, nell’ora più
buia della notte, quando le impalcature relazionali, cessano di
essere (The Shadow Of My Shadow).
Fagotti, carillon, corde,
dan bau, sheng e khaen.
Decadenza e divenire.
Scorrere.
Nessun
tetto coprirà mai abbastanza (se vorrai sentire).
Tutto
cresce, nulla è erbaccia.
Ogni cosa, ha il suo luogo.
Bere,
transitare.
Nessun offerta a disposizione, a prezzi stracciati.
Il
mio corpo si piega, i miei tendini si flettono, polmoni, cuore e
tutto il resto, oltre la mia risibile volontà.
Il vento
m’attraversa, lo scorrer del tempo, un panno caldo ingannevole,
tiepida misericordia.
Compiti ben fatti, tutti i santi giorni, uno
dopo l’altro.
Ma i nostri occhi, son sgranati di paura.
L’oltre,
ad un palmo di distanza.
Non troppo distante se si vuole.
Scava
e non s’arresta.
Ringrazio Philip Blackburn.
Voto: 9
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