(Discus 2013)
Singolare e denso, densissimo, a tratti ridondante di suoni e suggestioni eterogenee questa terza prova, disconosco le altre due, guidata dalla coppia Julie Tippets e Martin Archer. La prima, conosciuta in passato anche con il nome di Julie Driscroll, nonché moglie del pianista Keith Tippet (noto tra l’altro per la sua presenza alla corte di King Crimson nella sua incarnazione jazz di ‘Lizard’) è una cantante diciamo avant jazz, mentre il secondo è un multi strumentista essenzialmente alle prese con sax ed elettronica varia. L’album è un concept dedicato agli animali, in prevalenza rettili, coleotteri e scorponi e alla natura che li accoglie. Concept reso evidente oltre che dai testi, “Gecko…Gecko…You are like a lost princess. Building walls that blind you. You hide like a forbidden soul. Hoping they won’t find you” canta la Tippets in Squamata Dance, anche dal background strumentale, sovente quasi onomateopetico nel suo rimandare a suoni ambientali di scrosci, cinguettii, ronzii insettiiformi e simili. Il risultato finale è suggestivo, coraggioso, ma anche non di facile assimilazione e leggermente pretenzioso, al confine tra musica e sound art. Un calderone in cui si mescola sound poetry, al quale spesso la cantante si lascia andare, jazz multiforme, echi trip hop e dub, elettronica cacofonica, blues, improvvisazione e anche un certo feeling di rock in opposition. Ostico e non inquadrabile, da qualunque lato si guardi. Sicuramente un disco che merita rispetto per la sua ambizione spregiudicata e che mette le doti eclettiche di ambo i protagonisti fuori discussione: l’inventiva canora della Tippets e la fantasia strumentale di Archer sono immense. Purtroppo, a mio modesto parere, a volere fare troppo si rischia di strafare e la lunghezza non trascurabile del cd non aiuta molto. C’è poi quest’ambiguità, questo dualismo mai risolto tra sperimentazione pura e voglia di forma canzone che rende abbastanza discontinuo il progetto. Devo segnalare qualche traccia in particolare? Di sicuro l’iniziale River, forse la più pop (ma è un eufemismo) del lotto, con percussioni stratificate, bassi profondissimi, fiati smarriti, vocalizzi lost in translation e cori vagabondi e il bellissimo blues bombastico e impaludato di Snake Bite, i crescenti orchestrali della minacciosa Trust me I’m a doctor. Dal versante più off limits, spicca la preghiera senza peso e in punta di piedi di Song Spirit; quasi un’invocazione al buio tra insetti e fantasmi della foresta. Ha invece un qualcosa di Bjork, Crocodile Tears, graziata da una chitarra psichedelica d’altri tempi.
Voto: 7
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