Eseguito dal Quartetto d’archi di Torino al Festival MITO Settembre Musica, Chiesa di Santa Pelagia, Torino, Venerdì 13 Settembre 2013
Di Marco Paolucci
Questa volta il vostro Kathodik Man tenta l’impossibile, l’ascolto del Secondo Quartetto d’Archi di Morton Feldman, durata ipotizzata circa sei ore. Una leggenda metropolitana, un mito archetipico? Neanche tanto dato che il vostro eroe ha tenuto in mano per qualche volta il box di sei cd della registrazione, uscito qualche tempo fa per l’etichetta americana Mode, ma causa mancanza di pecunia, non ne è entrato in possesso. Da qui l’idea di andarlo a vedere eseguito dal vivo, portato sui palchi d’Italia dall’ensemble Quartetto d’archi di Torino. Mancato l’appuntamento a maggio al Festival Angelica a Bologna, l’occasione si presenta con il festival MITO Settembre Musica, nella città di Torino. La decisione matura come un “frutto” e poi via, insieme alla fedele compagna, il vostro scrivente/eroe dell’ascolto nelle vesti del sottoscritto, passa dalla terza alla prima persona e mi cimento in questa avventura uditiva, estrema in tutto e per tutto. Dopo alcune peripezie dentro Torino riusciamo ad arrivare al concerto, ritardo accademico di un quarto d’ora e platea della chiesa completamente piena. Ci fanno accomodare in un’altra stanza perpendicolare al palco dove possiamo vedere all’opera il Quartetto d’archi di Torino, Vittorio Marchesi primo violino, Umberto Fantini secondo violino, Andrea Repetto viola, Manuel Zigante violoncello. Come ho avuto modo di spiegare nell’intervista che dopo l’evento ho proposto al Quartetto, e che trovate qui, la preparazione che avevo pensato di fare sia nei giorni precedenti al concerto sia in prossimità non è servita a niente, complice anche la situazione e l’atmosfera. Avevo pensato ad una struttura il più possibile rigida, con persone sedute ed “impossibilitate” a muoversi, come in una sorta di prova di resistenza fisica e mentale. Invece e fortunatamente viene lasciata la libertà, in punta di piedi, di muoversi fuori e dentro la stanza mentre la musica continua ad andare senza sosta. E la musica diviene il motivo principale che muove il tempo, attraverso cui i musicisti interagiscono perfettamente tra di loro, riuscendo a mostrare al pubblico la grande prova fisica unita alla naturalezza nell’eseguire un brano di così incredibile lunghezza e di cosi profonda intensità emotiva. Dopo una prima fase di adattamento la mente inizia ad andare, complice il corpo fermo ed il flusso di pensieri che cavalcano le note che fanno loro da accompagnatrici e da guide; i secondi, i minuti e le ore fluiscono in un continuo, dando l’impressione che il brano per convenzione possa durare fino ad un massimo di sei ore, ma se si volesse potrebbe durare l’esistenza intera, come in una sorta di nastro di Möebius circolare, dalla nascita alla morte e successiva rinascita, per così dire (ma se vi capiterà di assistere dal vivo all’esecuzione del brano vi resterà facile anche a voi pensare questo). E nel mentre, spettatori occasionali che entrano nella stanza, altri spettatori che si alzano e se ne vanno, consapevoli che quello che hanno ascoltato si è rivelata una naturale ed incredibile esperienza appagante. Alla fine dopo che ogni barriera, ogni consapevolezza sulla capacità di resistenza del vostro eroe e della sua compagna era stata infranta, la musica si è liberata e ci ha portati oltre i confini del tempo, fino ad una “convenzionale” per chi scrive, conclusione del brano dopo circa sei ore di esecuzione. I sopravvissuti, parecchi ed entusiasti, tra cui i vostri eroi, si sono sciolti in un applauso che il Quartetto d’archi di Torino ha naturalmente meritato per la sua bravura e per la sua capacità di fornire una porta da cui scrutare ed ascoltare l’infinito. Dopo, usciti dalla stanza, il tranquillo e dovuto ritorno verso casa.