(Babel Babel 2013)
Dietro la sigla Glockenspiel opera il duo formato dal chitarrista Adrian Dollemore e dal percussionista Steve d’Enton, già noti nella scena impro inglese a fianco del sassofonista Paul Rutherford e del pianista Matthew Bourne. A dispetto della label licenziataria, ben nota da queste parti per il suo indagare la scena jazz, di jazz in senso stretto in questo disco non c’è nulla o quasi, se non una certa attitudine simil fusion virata in chiave rock con tocchi kraut e ambient. Per dirla breve, siamo dalle parti del post rock di metà anni 90, Tortoise, Fly Pan Am, Jessamine, Aerial M, Do Make Say Think e compagnia bella. Detta così sembra musica non particolarmente originale, e forse è così, colpa delle scorpacciate di suoni post assorbiti nel passato più o meno recente, che rendono inevitabile quel senso, sia pure non banalmente definito, di già sentito. In realtà il duo non se la cava male e si fa ascoltare molto volentieri, grazie anche alla scelta intelligente di un formato molto snello, sia dal punto di vista esecutivo che organizzativo, cinque tracce per una trentina di minuti, che non stancano e non affossano l’interesse e la curiosità, invogliando anche al riascolto. Se a questo si aggiunge un legame affettuoso del sottoscritto alle musiche citate… S’inizia in punta di piedi con i tocchi ambient di Larven, una nota a parte meriterebbero i titoli strambi e un po’ farmaceutici, e i suoi crescendo trattenuti ed avvolgenti. Ok, l’effetto è molto post rock, la ricerca del climax, il suo rifiuto, la ripresa, il declino, blah, blah, chi conosce il genere sa cosa intendo, ma l’insieme è molto sintetico, pulito, scarno, senza esagerazioni: un quadretto espressionista senza fronzoli. Dono della sintesi e della stringatezza che caratterizza anche il resto dei brani, sempre restii all’autoindulgenza e all’autocompiacimento, che se da un lato sembrano semplici e abbozzati, dall’altro mantengono freschezza e spontaneità. Ancora sapori ambient, qualche voce persa nel mix e percussioni sonnolente nell’inizio della title track, che poi evolve in una trance al rallentatore, sfregiata da una chitarra distorta quasi sommersa dai ritmi asimmetrici e sfilacciati di d’Enton. Belle le suggestioni quasi kraut e Faustiane di Bellaville, giocosa e luminosa nel suo continuo avvitarsi e svolgersi su sé stessa, come le riflessioni alla David Pajo di Tramadol. Chiude la pioggia di feedback di Fentanyl. Molto carino.
Voto: 7
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