(A Simple Lunch 2014)
Un percorso, quello del riminese Fabio Mina, che intercetta
il punto d’incontro fra terra, cielo e mare.
Occhi socchiusi su di
un non luogo delizioso, dove ansie e dolori si diluiscono in un
unico flusso cangiante.
Di movimenti lenti e senza tempo, di
sabbia, di brezza.
Voci in lontananza, abbastanza distanti da non
sporcare l’attimo perfetto.
Di evoluzioni solitarie e brevi tratti
di percorso condivisi.
Fabio Mina soffia in strumenti di etnie
distanti, l’Armenia del Duduk, la Thailandia del Khaen, l’India del
Bansuri, il Vietnam del Danmoi, la Slovenia della Koncovka.
Legni
e metalli, cui aggiunge refoli d’elettronica discreta e qualche
risacca di field recordings.
Marco Zanotti
ad offrirgli i colori e gli umori ritmici del sud del
mondo (armeggiando mirabilmente fra bombo, pandeiro, calebasse e
oggetti vari), Markus Stockhausen (col quale condivide un
progetto d’esplorazione/dialogo, tra fiati ed elettronica) a porger
tromba e flicorno in due brani.
Il resto è danza, a volte
immobile, a volte liberatoria.
Architetture intime ed orizzonti
vividi, mutevoli e attuali.
Nessun facile esotismo da quattro
soldi.
C’è carne, tormento e gioia in “The Shore”.
Voto: 8
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