(Innova 2014)
Se la musica, come spesso si sostiene, è un tutto, quella del compositore americano Jerome Kitzke lo è in modo speciale, unico, esaltante. I suoi brani sono opere d’arte totali, a iniziare dalle partiture che, come riporta Sarah Cahill, la celebre pianista autrice delle note di copertina, contengono anche aspetti grafici che ne agevolano (così ella garantisce, da straordinaria pianista quale è) il processo interpretativo. Processo che è anch’esso totale: ai musicisti si richiede una familiarità con i vari generi che compongono l’universo musicale odierno, e che i brani di Kitzke mescolano con gioia. Ad essi viene chiesto anche di cantare, recitare, fischiare, ridere e singhiozzare: ciò ovviamente vale in primis per la voce narrante, che nel primo brano è quella dello stesso Kitzke, nella sua consueta veste di speaker-pianist, mentre nel terzo brano è affidata alla bravissima Jennifer K. Marshall. Sì, perché quasi sempre le composizioni di Kitzke sono costruite intorno a uno o più testi, di cui le trame musicali restituiscono il significato in termini musicali, amplificandolo e spesso arricchendolo di nuovi aspetti. È il caso di The Green Automobile, basato su una poesia di Allen Ginsberg del 1953 che narra di un viaggio immaginario alla guida di una verde automobile, la cui fantasia sfrenata e la cui fluente energia sono esaltati dal tour-de-force pianistico di Kitzke, che talvolta si abbandona a momenti di improvvisazione, a risate che sgorgano spontanee, per poi rimontare in sella del suo incessante e convulso motorismo ritmico. Laddove nel lungo Winter Count, per voce recitante, percussioni e quartetto d’archi (il magnifico Ethel Quartet), Kitzke attinge a tutto il suo vocabolario – alle sue repentine, eppure mai violente, sterzate da momenti di serrata e magmatica attività contrappuntistica a passaggi meditativi, di commovente e immediato lirismo – per raccontare tutte la gamma di sfumature emotive (dalla rabbia all’angoscia, dalla speranza di salvezza alla compassione) che la guerra provoca, e che i testi qui raccolti e narrativamente disposti (Eschilo, Mackay, Pinter, Whitman, Scott, Rumi) magistralmente esemplificano. Nell’ultimo brano, The Paha Sapa Give-Back, l’esortazione contenuta nel titolo (traducibile come “ridateci le Black Hills”, la terra espropriata alla tribù indiana dei Dakota) è sussurrata, ma più spesso urlata dai quattro percussionisti che la supportano con incessanti ritmi tribali, e dalla pianista (tutti e cinque membri del The Mad Coyote ensemble) che la addolcisce con toccanti inserti melodici. Ennesima istanza di quel desiderio di tolleranza, umanità, vitalità, che la musica di Kitzke meravigliosamente incarna.
Voto: 10
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