Di Silvia Casilio
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Il manifesto, come ci ricorda Andrea Sangiovanni, nasce con «i bandi e le grida come forma di comunicazione “istituzionale”», si trasforma in strumento di comunicazione politica di parte durante la Rivoluzione francese diventando con l’avvento della società di massa uno strumento pubblicitario. L’incontro con la realtà sociale farà sì che il manifesto diventi un elemento capace di orientarsi in una società in perpetuo movimento e continua trasformazione.
E proprio al manifesto o meglio ai manifesti è dedicato il volume di William Gambetta ‘I muri del lungo ’68’. Ancora una volta il manifesto si fa strumento: Gambetta infatti lo utilizza per riflettere sulla storia politica e sociale dell’Italia repubblicana servendosene come chiave di lettura per meglio raccontare alcuni passaggi di quella storia. In questo lavoro il manifesto è la fonte – e non un elemento di corredo come si legge nella Prefazione firmata da Edoardo Novelli (p. 6) – da cui lo storico parte e attinge per tessere la sua trama. La comunicazione politica e quindi i manifesti sono nell’analisi di William Gambetta i documenti utilizzati per interpretare la società, le culture politiche, i processi produttivi che caratterizzarono gli anni presi in esame dal libro.
‘I muri del lungo ’68’, infatti, ci raccontano una storia lunga vent’anni, vent’anni tra i più vivaci, controversi, dolorosi ed entusiasmanti che l’Italia abbia vissuto dal 1945 in poi, vent’anni di grandi trasformazioni che cambiarono per sempre il linguaggio della politica, gli stili e le culture visive non solo dei partiti ma anche dei movimenti sociali e politici che degli anni Sessanta e Settanta furono alcuni dei protagonisti principali.
Gambetta studia e prende in esame non solo i manifesti più noti e conosciuti – si pensi ad esempio ai manifesti della contestazione studentesca italiana del 1968 o del Maggio francese – ma anche documenti di produzione minore e poco conosciuta opera di gruppi minoritari – Soccorso Rosso, Radio Onda Rossa ecc. – o che ebbero per vari motivi una produzione limitata e circoscritta. La varietà delle fonti però non è il solo merito di questo lavoro: l’aspetto che più abbiamo trovato interessante e che rende il libro originale è la capacità di Gambetta non solo di far dialogare le fonti tra loro ma anche di proporre una pluralità di approcci interpretativi che spaziano dalla semiotica alla storia dell’arte, dai testi teorici sulla nascente società dell’immagine ai cataloghi di mostre per arrivare ai più tradizionali lavori di carattere storiografico. Una ricca bibliografia infatti accompagna e sostiene il lavoro rendendolo dinamico e mai banale.
In realtà scorrendo i testi che Gambetta ha consultato durante il suo lavoro di ricerca la nostra attenzione è stata catturata dalla constatazione che molti di quei lavori sono stati pubblicati negli anni ’70 e cioè nel pieno degli eventi che sono al centro di ‘I muri del lungo ’68’. Cosa ci dice questa che apparentemente può sembrare una constatazione priva di significato? A nostro avviso ci fornisce alcuni elementi su cui vale la pena di riflettere, seppur brevemente. In primo luogo, ci restituisce il grande fervore scientifico che dominò il lungo sessantotto in Italia e non solo e ci dà la misura di quanto quelle spinte innovatrici riuscirono a contaminare anche ambiti accademici fino a quel momento apparentemente impermeabili al nuovo che stava avanzando. Gli anni della contestazione – che nel nostro Paese si estesero molto al di là del 1968 e che contaminarono cultura e società ben oltre i confini (angusti) dell’accademia – videro un proliferare di nuove discipline, di nuove metodologie di ricerca e di nuove ipotesi interpretative che spinsero giovani studiosi ad interrogarsi sulla politica, l’azione collettiva ecc. seguendo percorsi e utilizzando fonti inedite ed originali.
In secondo luogo, questa ricca e densa bibliografia che potremmo definire anche “datata” – senza nessuna accezione critica o negativa – è la spia di una difficoltà tutta italiana: la ricerca soprattutto storiografica sulla comunicazione politica e non solo registra soprattutto a partire dagli anni ’80 del Novecento un ritardo vistoso nell’affrontare alcuni temi – quali ad esempio la violenza politica o il protagonismo dei movimenti giovanili o femministi – che invece fuori dai confini nazionali sono frequentati abitualmente da studiosi di varie discipline (sociologi, storici, linguisti ecc.) ricorrendo a fonti “non-tradizionali” quali la televisione, il cinema, la fotografia.
Un gap che negli ultimi anni giovani e validi studiosi come Wiliam Gambetta stanno colmando con lavori di spessore – e ‘I muri del lungo ’68’ è un esempio felice di questo fermento – che restituiscono ognuno da una prospettiva diversa la complessità degli anni Sessanta e Settanta. Il lavoro di Gambetta ha infatti uno dei suoi momenti più interessanti nell’analisi dei movimenti dei femminismi italiani. Dallo studio dei manifesti dei partiti, come PCI o DC, o dei gruppi della sinistra extraparlamentare emerge la difficoltà di queste organizzazioni di rappresentare non solo le donne, nuove protagoniste della scena politica e sociale del secondo dopoguerra, ma anche le istanze di cui esse si fecero promotrici e che diventarono i cavalli di battaglia dei femminismi italiani. Scrive Gambetta: “A tutti i partiti – dalla sinistra rivoluzionaria alle forze più conservatrici – il nuovo protagonismo femminile impose la necessità di parlare delle donne e alle donne e di tener conto delle loro aspirazioni” (p. 91). Eppure fino alla metà degli anni Settanta, i partiti riproposero il tradizionale archetipo della donna angelo del focolare, centro della famiglia, “simbolo di coesione e difesa del nucleo domestico, soggetto intimamente legato alla sfera privata nel duplice ruolo di madre e moglie” (p. 95). Saranno i manifesti della composita area del femminismo, “espressione più evidente di quella ‘presa di parola’, della necessità di raccontarsi autonomamente, del rifiuto di essere destinatarie di messaggi estranei e indifferenti a quel processo liberatorio” innescato dai movimenti delle donne, ad imporre anche ai partiti un cambio di rotta e a far sì che al centro della loro comunicazione politica irrompesse l’immagine di una donna “emancipata dai vincoli familiari e maschili, pronta a battersi per i propri diritti e a partecipare alla vita politica” (p. 99). “Il femminismo”, scrive ancora Gambetta, “segnò quindi una cesura non solo nella rappresentazione iconografica ma anche nelle forme di dialogo che i partiti costruirono con le donne: le loro icone femminili, indipendenti sul piano sociale e libere da allegorie e metafore, parlavano in prima persona, parlavano di se stesse, delle loro condizioni e aspirazioni, e così facendo parlavano ad altre donne” (p. 101).
Le pagine che Gambetta dedica alle donne (pp. 84-103) sono, come abbiamo già detto, estremamente interessanti soprattutto se lette alla luce della rappresentazione iconografica che negli ultimi venti anni la politica e la pubblicità ha costruito intorno all’immagine femminile. Il corpo delle donne è tornato protagonista della rappresentazione iconografica soprattutto per ciò che riguarda la comunicazione politica. Si pensi ad esempio alle ultime campagne elettorali: spesso è difficile riuscire a distinguere tra la pubblicità di un profumo che utilizza una bellissima fotomodella con abiti seducenti e in pose accattivanti da un manifesto elettorale che dovrebbe “parlare” di una donna impegnata in politica con un programma da proporre. Allo stesso tempo però, apparentemente in modo paradossale, è tornata ad essere centrale la figura della donna in quanto madre. Questa ultima considerazione può essere facilmente verificata con una piccola “indagine provocatoria” tra le immagini di un qualsiasi motore di ricerca su internet. Se si inserisce come parola-chiave “lavoratrice” o “operaia” le immagini che il motore pesca – prima delle consuete foto di donne in costume ecc. – sono tutte immagini di una donna incinta o di una donna manager dotata contemporaneamente di figlio, computer, aspirapolvere ecc. o di una donna multitasking divisa tra lavoro di cura e lavoro in ufficio sull’orlo di una crisi di nervi. La donna del nuovo millennio, a differenza di quella degli anni Settanta del secolo scorso di cui ci parlano i manifesti studiati da Gambetta, è di nuovo, almeno da un punto di vista iconografico, madre prima che donna, madre prima che lavoratrice. Certo la realtà è molto più complessa e l’argomento meriterebbe un approfondimento serio, però questa semplificazione, a nostro avviso, dovrebbe spingere ad ulteriori riflessioni da una parte circa la necessità di una sempre più attenta educazione alla differenza e alle questioni di genere e ad un superamento critico del concetto di pari opportunità nel nostro Paese.
Un libro da leggere quindi e che fornisce molti stimoli e indicazioni per studiare e saperne di più. Un libro da vedere, ci verrebbe da aggiungere. Rivolgiamo quindi un invito a Gambetta: perché non pensare ad una nuova edizione, magari digitale, a cui aggiungere oltre ai manifesti che compaiono nell’inserto centrale del volume anche la riproduzione di tutti i manifesti analizzati e incontrati durante la ricerca? Sarebbe un modo per permettere al lettore di comprendere le sfumature e cogliere i messaggi, le parole, le storie che quei manifesti ci raccontano.
Link: William Gambetta, I muri del lungo 68, Roma, Derive Approdi, 2014