(Boring Machines 2015)
Lisergia cosmico dronante, cupa e descrittiva.
Un riuscito
split album quello assemblato dalle due entità.
Che nella
prima parte (Adamennon), si presenta come frinire
elettroacustico (l’iniziale Manvantara), procede evocando
spettri dark (black) ambient nella tensione gotica di Niranyagharba
(con insistenze alla Broadrick) per poi scivolar nel buio fra
segnali Morse digital/astrali e contorsioni vocali (Pralaya).
Qualche
spigolo in meno per Altaj, che tratta medesima materia
esaltandone la componente soundtrack.
Distese di suono in lenta
progressione stratificata e luminose scie nel cielo (Syngaaga),
field recordings, corde in effetto e tetre ambientazioni con
l’attrito a urlar nelle orecchie (Teletskoje).
Comune
ispirazione la forniscono rituali e storie delle popolazioni nomadi
di Tibet e Mongolia (silenzi, pietre e notturne
dissonanze).
L’effetto carta da parati minimale è
brillantemente evitato.
Ben fatto.
Voto: 7
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