(Ici d Ailleurs 2016)
Vent’anni son trascorsi dall’uscita di “Semtex”, debut
album per la sigla Third Eye Foundation che Matt Elliott,
festeggia in edizione monstre, aggiungendo alle sei tracce
dell’originale ventitre inediti composti fra il 1991 e il 1997 in
prevalenza registrati su nastro.
Nel complesso, si sforano di un
bel tot le quattro ore (in assoluta scorticata meraviglia).
Edito
per la propria Linda’s Strange Vacation (in supporto con i
tipi della Domino) e l’aiuto di amici come Debbie Parsons
(Foehn) alla voce in alcuni brani e Matt Jones di
Crescent, “Semtex” riluceva di grezza e ispida
grazia post, tutta spigoli, abrasioni e narcotiche sospensioni
torturate.
Ben oltre le ruvidezze indie mainstream del periodo,
compatto e coerente nei suoi continui urti e ciondolamenti da mantra
terminale, ad ogni passo strascicato, ad ogni frenetica rincorsa,
detriti e polvere a schizzar tutt’attorno.
Materia impalpabile,
che si frappone rossiccia fra noi a terra e il sole (immersi una
calura insopportabile), orizzonti tremolanti, una litania
muezzinico/malinconica come soffio costante incastrata a fondo nelle
orecchie.
La violenza da vena gonfia e corpo proteso in corsa
dell’iniziale Sleep, l’espansione sfiancata di Once When I
Was An Indian, il sovrapporsi con attrito dei cieli
ritmico/elettrici di Next Of Kin, l’abbandono gravitazionale
in trip fra macerie di Dreams On His Fingers, il gocciolio di
cristalli sulla fine del secolo in arrivo della conclusiva Rain.
A
tratti, una sanguinosa convulsione acustica, a tratti un immobilizzo
ansimante, fra elettronica lo-fi e chitarre smeriglianti in
performance no-rock (la costante stratificata/dronante ricerca, di
una possibile mutazione in umorale colore acceso del
corpo).
Drum’n’bass, shoegaze, l’esser di Bristol col suo trip e
il suo hop, cupe fascinazioni wave.
Questo il perimetro di
gioco.
Urlato tanto, ma proprio tanto.
Di fronte alla
mareggiata di outtakes si china il capo.
Quel che per la maggior
parte, è restato sempre fuori dai dischi di Third Eye
Foundation.
Certo, vicoli ciechi, allungamenti impropri e piccini
storditi non mancano, ma a girarla e rigirarla, ne tirate fuori
materiale buono per altri tre o quattro album.
Roba disomogenea
nel proprio mutar pelle (il divario temporale coperto è assai
ampio), ma tra scansioni di oriente metallico/percussivo,
vaporizzazioni e meccaniche stridenti post-industrial, staticità
ambient (in declinazione pastorale e dark), umori neo-folk, una Get
To Fuck in straniante tiro Sun Ra, folate elettriche e
scariche granulari, krauterie stirate oltre il limite del feedback,
materia bruta, che se dici elettroacustica da mics a contatto in
ululato (trattato), scuoti la testa affermativo, ecco, fra tutto
questo, non ti annoierai mai.
Voto: 9
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