(Auand 2016)
Al principio, quando iniziò a essere usato, il termine jazz era dispregiativo: un modo per connotare negativamente pratiche musicali non rientranti nel canone accettato e rispettabile dell’estetica musicale tradizionale, istituzionale, eurocentrica, bianca. Quello “Jazz” era un suono rozzo, sporco, ruvido, di ceto non artistico. Con questa origine del termine gioca, non so quanto intenzionalmente, il titolo dell’album del gruppo: a parte l’intervento del live electronics, la formazione è la classica “nuda” formazione rock strumentale: chitarra (Andrea Bolzoni), basso (Dario Miranda), batteria (Daniele Frati). Il genere è una robusta miscellanea di garage rock, avanguardia, jazz, minimalismo: il tutto, come avverte a caratteri cubitali il booklet, dando vita a una TOTALLY IMPROVISED MUSIC. Il suono è, ovviamente, ruvido, sporco, distorto (ma non direi “disturbante”). E (ma anche in questo caso non so se l’accostamento “per contrappasso” sia voluto) sembra del tutto l’opposto del facile e comodo (almeno, così dovrebbe essere nell’intenzione dei produttori, ma poi quante imprecazioni al momento dell’assemblaggio casalingo!) Fai-da-te dei mobili montabili distribuiti a livello mondiale da una nota marca svedese. Eppure (almeno qui, nel disco) alla fine tutto s’incastra bene e siamo grati all’album per l’offerta di un’espressività che non mi sembra ingiusto definire genuina, sebbene sia peggio del jazz.
Voto: 7
Alessandro Bertinetto