(SMS 2017)
Il confronto con la dimensione del piano solo, della conversazione musicale con se stessi (per parafrasare il titolo di un celebre disco di uno dei massimi interpreti di questa dimensione espressiva, Bill Evans), rappresenta da molti decenni una tappa obbligata per qualsiasi pianista. Volendo far riferimento al mondo del jazz, da Thelonious Monk a Bud Powell, da Herbie Hancock a Chick Corea, da Cecil Taylor a Keith Jarrett, da Michel Petrucciani a Paul Bley, fino ad arrivare a pianisti più giovani ma ormai definitivamente affermati, come Brad Mehldau, Vijay Iyer, Craig Taborn o Stefano Bollani, il concerto e/o il disco “in solitaria” costituisce una sfida alla quale difficilmente ci si può sottrarre. Sebbene il pianista di cui parliamo qui, ovvero Glenn Stallcop, sia meno famoso rispetto ai nomi appena menzionati, e sebbene ‘Quail Song’, suo sedicesimo lavoro di improvvisazione solista al piano, non possa definirsi propriamente un disco jazz, la premessa di cui sopra mi sembra comunque valida in virtù del carattere di “sfida” che la dimensione del piano solo sembra rappresentare anche per lui. Come ho appena detto, ‘Quail Song’, che si compone di 7 brani di diversa forma e durata, non può essere definito un disco jazz (e forse in realtà non è inquadrabile in alcun genere musicale predefinito), nel senso che, come avranno modo di scoprire fin dalle prime note coloro che lo vorranno ascoltare, ci troviamo di fronte a un’opera in cui i confini tra stili con cui siamo soliti categorizzare la musica vengono qui assorbiti e inghiottiti, per così dire, dalla dimensione “totalizzante” dell’improvvisazione. Un’improvvisazione che, nel suo fare costitutivamente destrutturante, va a generare un flusso musicale dinamico nel quale spontaneamente, come da sé, si vengono poi a costruire nuove strutture, percepibili all’ascolto nella loro instabile stabilità. Sotto questo punto di vista, dunque, il disco si presenta come un esercizio intrigante (e, nei suoi momenti migliori, anche ben riuscito) di composizione istantanea, nutrito dalle sensazioni e intuizioni del suo autore relative a un mondo che definisce “continually surprising and fascinating” e, soprattutto, relative alla “cacophony of birdsong” che, come si legge nel libretto allegato al disco, lo accoglie ogni mattina al risveglio, di modo che la filosofia soggiacente al disco può esser sintetizzata in questo modo: “The quail song is just there to remind you that despite all the waves of volatility, life goes on unaffected”. Detto ciò, bisogna anche aggiungere però che non tutto nel disco di Glenn Stallcop (il quale, oltre che pianista e compositore-improvvisatore, è anche contrabbassista nella Phoenix Symphony) è sempre allo stesso livello: non in tutti i brani la qualità de- e ri-costruttiva, nonché espressiva, riesce a mantenersi elevata, e dopo un po’ l’uniformità sonora (pressoché inevitabile in un disco per un solo strumento, qualunque esso sia) tende a imporsi all’orecchio dell’ascoltatore rispetto alla pur intrigante varietà delle soluzioni musicali adottate, divenendo talvolta preminente e compromettendo in parte l’apprezzamento dell’opera. Probabilmente, quindi, scomodando la celebre formula nietzschiana del “per tutti e per nessuno” e modificandola, potremmo definire in modo un po’ più banale ‘Quail Song’ come un disco “non per tutti”. Un disco che richiede in primo luogo ricettività per la dimensione del piano solo, ovviamente, e poi soprattutto orecchie prudenti e pazienti, una disponibilità a intersecare il piano del godimento estetico puramente sensibile con quello più intellettuale, e infine un’elevata sensibilità per le sfumature e i minimi passaggi. A queste condizioni, in molti (seppure non in tutti) momenti del disco il pianista americano sa ripagare l’ascoltatore dell’ascolto prestatogli.
Voto: 6
Stefano Marino