(Trasponsonic 2017)
Un interno camera in disgregazione accelerata l’atto conclusivo
della ricerca etnografica “L’Homme Ermètique”.
Estenuante rituale elettroacustico in tracimazione fuori controllo.
Evento consapevole che tutto deflagra, polverizza e disperde.
Documento sonoro del 2009 (in presa diretta-no overdubs) che attesta l’unicità
espressiva della tribù (per l’ultimo giro espansa, rispetto
all’oggi Miroslaw / Dem) HBOL.
Un “Grande Freddo” jodorowskyano dai colori accesi sulla soglia del male fisico. Vita e traiettorie in dispersione espansiva, attesa, paura e strappi di speranza. Esposizione cruda di tagli e lividi in illuminata performance.
Ascensione e sparpagliamento tutt’attorno dei resti.
Nulla rimanga intatto. Nulla rimane.
Forma esasperata, libera sul filo del patologico, a tratti di grottesca
tragicità (gli intrecci vocali, in tutto e per tutto
un’isteria brutista da Virgin Prunes persi nel bosco).
Il passaggio finale di un contatore geiger su quel che si contempla, un
ticchettio ammonitorio.
Ricominciar altrove, seguire il bleep in modalità anfibia, senza guardarsi attorno, tutto è dentro. Feste arcaiche, muri incrostati, ruggine, silenzi,
occupazioni più o meno dichiarate, gente che si puzza la fame
ed il senso chiaro di quel che passa non resta.
Poltiglia vitale in esoterica trascendenza (la chiosa stritolante di taglio percussivo
industrial/popolare del primo cd), oltre la soglia del buon senso o
farne una questione di gusto (l’anarchismo diy artaudiano, fatto
azione fisica nello strapazzante cerimoniale che anima il secondo cd).
Certo, tutto, prima o poi si rompe. Questa l’unica grazia.
A quest’altezza, la vertigine è buio.
Voto: 9
Marco Carcasi