The Afghan Whigs ‘In Spades’

(Sub Pop 2017)

Se nel 1993 eri un adolescente un po’ problematico e, in particolare, col cuore perennemente spezzato, allora il disco assolutamente da non ascoltare era ‘Gentlemen’ degli Afghan Whigs. Manco a dirlo, quell’anno e negli anni successivi ho letteralmente divorato quel disco, saturando le mie orecchie con le sue chitarre distorte, la voce roca di Greg Dulli (il leader della band) e i suoi testi sofferti, a volte romantici e disperati, a volte sensuali e finanche osceni. Se nel 1996 eri un ragazzo all’inizio del percorso universitario e con una condizione emotiva non granché differente da quella di 3 anni prima, allora il disco assolutamente da evitare era ‘Black Love’ degli Afghan Whigs. E naturalmente, invece, quell’anno e negli anni successivi mi sono immerso in fondo fin nei dettagli più nascosti di ogni canzone di quell’album, lasciandomi dolcemente avvelenare dall’‘amore oscuro’ di Dulli & soci. E se nel 2017 sei ancora un tipo un po’ incasinato interiormente (seppure in modo diverso che in passato, avendo (s)fortunatamente guadagnato un qualche tipo di equilibrio nel frattempo), beh allora cosa faranno gli Afghan Whigs? Dopo una pausa di 3 anni dal precedente ‘Do to the Beast’ rieccoli qui con un nuovo album, intitolato ‘In Spades’ (traducibile con ‘in abbondanza, da vendere, al top delle potenzialità, come diresti di una squadra di calcio o della bellezza di una donna’, ha spiegato Dulli). Un album che, come si legge in un’intervista rilasciata ancora quest’anno da Dulli, ‘intreccia i temi della mortalità e della perdita, del sesso e della salvezza, della violenza e del ricordo’: insomma, l’ennesimo album dal quale tenersi alla larga se si vogliono evitare scompensi emotivi e al quale invece, com’era ovvio, ho dedicato decine di ascolti da maggio a oggi. Come si legge sulla pagina Wikipedia a loro dedicata, ‘certain themes have been noted as developing Dulli’s songwriting for The Afghan Whigs and beyond – in particular, his mixing of black humor with topics such as drug addiction, sexual deviancy and suicidal thoughts, which often seem more personal and provocative due to their frequent embrace of the first person’. Ora, rispetto a diversi album passati degli Afghan Whigs (e non mi riferisco soltanto ai loro ‘classici’ dei primi anni ’90, ma anche al disco precedente del 2014), il sound di ‘In Spades’ è a prima vista, o meglio al primo ascolto, meno aggressivo, meno tagliente, meno selvaggio, meno distorto: in una parola, meno ‘rock’. Fanno eccezione alcuni brani, come Arabian Heights, Copernicus e Light as a Feather, piuttosto intensi e soprattutto ‘duri’ quanto alla loro sonorità in generale; ma essi sono compensati, per così dire, dalle trame sonore molto più morbide e avvolgenti (e alquanto inedite per i Whigs, appunto) di brani come Birdland, Toy Automatic, The Spell, I Got Lost e la conclusiva, drammatica Into the Floor (con un ‘I’ll remember you always this way’ in falsetto che ispira un immenso senso di amore e/è lutto). A incernierare le due anime del disco (un disco molto breve, solo 36 minuti, ma nel quale la quantità di materiale offerto all’ascoltatore, alquanto ridotta, appare inversamente proporzionale alla sua qualità, piuttosto ricca) troviamo i singoli immediatamente estratti da ‘In Spades’ e accompagnati anche da videoclip originali e intriganti: Demon in Profile e Oriole. Se il primo di questi due brani, con la sua ritmica accattivante e la notevole aggiunta di una corposa sezione di fiati, costituisce la testimonianza definitiva dell’infatuazione per il soul di Dulli & Co. (caratteristica, quest’ultima, che contribuì a distinguere i Whigs fin dai primi anni ’90, rendendoli difficilmente assimilabili allo stile ‘grunge’ allora di moda, nonostante incidessero anch’essi con la leggendaria etichetta Sub Pop di Seattle), il secondo rappresenta a mio giudizio uno dei vertici della produzione degli Afghan Whigs in generale, sebbene ciò non mi si sia appalesato immediatamente ma solo dopo ripetuti ascolti e dopo essermi confrontato a fondo, per così dire, con il testo del brano. Arrangiato in maniera ricca e molto ben amalgamata (accanto a chitarre, basso e batteria fanno la loro comparsa mellotron, vibrafono e violoncello), un brano come Oriole si caratterizza per un incedere regolare e costante, dapprima un po’ dimesso, poi più intenso, infine travolgente con l’entrata nella sezione finale che, dal punto di vista del testo, ci presenta un po’ la quintessenza della poetica di Dulli: ‘Thru love I wander / Seek my thunder […] / Free at last / Cage burned / Cages burn / So true, unglued / Where and when no matter / I will find you / Until then / Hang on, hang on […] / Where and when no matter / I will find you’ (ripetuto con un tono che rende impossibile distinguere se si tratti di una promessa d’amore o di una minaccia, o più probabilmente entrambe le cose nel medesimo istante). In definitiva, ‘In Spades’ è un disco che, per le sue sonorità meno grezze e meno scortecciate rispetto a quelle a cui ci hanno abituato negli anni gli Afghan Whigs, e più simili semmai a quelle di certi album dei Twilight Singers (l’altro progetto musicale di Dulli), forse farà storcere il naso ad alcuni fra i loro fan più tradizionalisti, ma che a noi ha convinto parecchio, con performance vocali di Dulli spesso di rara intensità (anche quando l’intonazione non è proprio perfetta… anzi, talvolta proprio per questo: un canto ‘sporco’ al punto giusto; del resto, ‘it’s only rock ’n’ roll and we like it’!). ‘Whatever it is that’s kept us together / I look to the sky and it’s gone’; ‘It was all that I wanted / Now it’s killing me’; e soprattutto ‘Love is a lie / Like a hole in the sky / Then you die’: il senso di irrimediabile perdita, di perpetua insoddisfazione, e soprattutto di intima congiunzione tra amore e morte è sempre lì, condensato in questi brevi ma intensi versi, a ricordarci che gli Afghan Whigs sono tornati e la loro poetica del ‘black love’ è rimasta immutata.

Voto: 10

Stefano Marino

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