(Murailles Music 2017)
L’Ocelle mare è il nome del progetto solista del polistrumentista autodidatta Thomas Bonvalet, precedentemente bassista e chitarrista della band Cheval de Frise (1998-2004). Come spiegano le liner notes a ‘Temps en terre’, disponibili sull’apposita pagina web, a partire dall’uso di questi strumenti (basso, chitarra) Bonvalet ha progressivamente ampliato l’organico del proprio progetto solista, incorporando in esso fonti sonore di diverso tipo che vanno dal battito del piede agli strumenti a fiato a percussioni più o meno di ogni genere. Ciò trova pienamente espressione nel lavoro che è oggetto della presente recensione, nella misura in cui esso prevede una strumentazione definita come “composite, rustic, yet paradoxically sophisticated”, e comprendente la seguente lista di strumenti e oggetti: “piano, 6-string bass banjo, mechanical metronome, tuning forks, claves, hand and foot clapping and tapping, mini amps, amps, subwoofer, microphones, small mix desk, bells, mouth organ fragments, concertina, componiums, ‘stringin it’, audio ducker, drum skins, clockwork motors”. ‘Temps en terre’ è il quinto album pubblicato da Bonvalet a nome del progetto L’Ocelle mare e, come informa ancora una volta il suo sito web, è il primo a esser stato registrato in studio, le precedenti prove (cioè i dischi “Serpentement”, “Engourdissement” e “Porte d’Octobre”) essendo state catturate dal punto di vista sonoro, per così dire, in ambienti molto diversi e in un certo senso eccentrici, come templi, chiese, foreste, grotte e non meglio precisati spazi urbani. ‘Temps en terre’ si compone di nove tracce di durata variabile ma sempre molto breve (si va dal minuto ai quattro minuti circa a seconda dei brani) e tutte omonime, quanto al loro titolo, al titolo del disco stesso, ovvero Temps en terre 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 9. Se, sotto questo punto di vista, le scelte di Bonvalet non sembrano brillare troppo per fantasia, per così dire, esse brillano invece per fantasia dal punto di vista timbrico, come ci si può facilmente aspettare, del resto, già dopo aver letto l’enorme varietà di strumenti (nell’accezione più ampia possibile di questo termine, dato che sono inclusi oggetti di vario tipo, parti del proprio corpo percosse al fine di generare suoni, ecc.) impiegati nel disco. Sotto quest’ultimo punto di vista, dunque, ‘Temps en terre’ non manca certamente di riservare sorprese all’ascoltatore e offre in vari casi autentici momenti di fascinazione sonora, suggestione e stupore, principalmente sul piano della molteplicità di risonanze timbriche, come si diceva. Purtroppo, bisogna aggiungere che dopo un paio di ascolti ci si rende anche conto che non si tratta soltanto del principale ma forse anche dell’unico merito di questo disco… Infatti, se valutato dal punto di vista delle altre dimensioni di cui si compone il decorso musicale (melodia, armonia, ritmo, ecc.) ‘Temps en terre’ non sembra avere molto da offrire… Le estemporanee sortite con strumenti tradizionali, come il primo brano introduttivo al pianoforte ad esempio, soffrono per l’appunto di mera estemporaneità, di non organicità rispetto al progetto complessivo e anche di una certa ingenuità sul piano strumentale, dando l’impressione di una sequenza casuale di note che hanno poco da dire (laddove in molti casi, ovviamente, anche le sequenze casuali di note possono avere molto da dire: il che significa che non c’è qui alcun pregiudizio negativo nei confronti della casualità e dell’accidentalità in musica, né si intendono i succitati termini “melodia, armonia, ritmo” in un’accezione in qualche modo tradizionale, bensì unicamente come concetti utili per inquadrare le dimensioni che strutturano qualsiasi evento sonoro umanamente organizzato, da quello definito strutturalmente fin nei minimi dettagli a quello strutturato nella maniera finanche più destrutturata, per così dire). Ripeto: non mancano nel disco momenti suggestivi e talvolta dotati di fascino, capaci di catturare l’attenzione dell’ascoltatore, ma purtroppo alla lunga essi risultano sacrificati rispetto a un intero (cioè, rispetto al disco nella sua interezza) che, pur nella sua brevità, dà un senso di prolissità e, soprattutto (ed è probabilmente la lacuna più grave che ci si sente qui di dover evidenziare), di compiaciuta auto-indulgenza e indebita pretenziosità. Lacuna che, del resto, la modesta esperienza d’ascolto di chi scrive ha potuto riscontrare in non poche occasioni in progetti musicali che, in maniera un po’ ambiziosa, dichiarano di inscriversi in una molteplicità di campi e generi musicali come “improvisation, folk, rock and contemporary music”, ritenendo che la contaminazione, la promiscuità sonora e un certo “esser-naif ma in maniera sofisticata” (ossimoro che chi ha una certa familiarità con queste operazioni sicuramente comprenderà) siano di per sé garanzia di una non meglio specificata “avanguardia”. Cosa che invece non è, purtroppo.
Voto: 4
Stefano Marino
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