(ECM 2017)
Insieme a Brad Mehldau, Jason Moran, Vijay Iyer e pochi altri, Craig Taborn si può probabilmente considerare come uno dei pianisti jazz “relativamente giovani” (intendendo con ciò i pianisti nati nella prima metà degli anni Settanta, quando si andavano affermando in modo definitivo coloro che ormai consideriamo dei veri e propri maestri: Hancock, Corea, Jarrett ecc.) più promettenti degli ultimi dieci/quindici anni, anzi ormai stabilmente affermatisi come punti di riferimento per i musicisti appartenenti a generazioni più recenti. Rispetto a perlomeno alcuni dei colleghi appena citati, però, Taborn spicca per la parsimonia non tanto delle sue registrazioni in sé (che infatti sono numerose, in termini di apparizioni su dischi firmati da altri jazzisti, e prestigiose, se si tiene conto che ha lavorato come sideman con Tim Berne, Steve Coleman, Michael Formanek, Bill Laswell, Dave Holland, Chris Potter, Roscoe Mitchell, Evan Parker e altri) quanto delle sue registrazioni come leader. Dal 1994 a oggi, infatti, solo 9 sono i dischi usciti a nome di Taborn, di cui 3 (fra cui quello che recensiamo qui) con l’etichetta ECM. Si tratta di una poetica e di una politica di consapevole, intenzionale sobrietà, riservatezza e parsimonia, che ha spinto Taborn a distillare e disciplinare le uscite discografiche a proprio nome, anche come scelta controcorrente rispetto a un’epoca, come la nostra, talvolta “iper-produttiva” sotto questo punto di vista (così come alquanto controcorrente è la scelta deliberata di Taborn di non avere e non curare un proprio sito web). Di questi dischi come leader, come si diceva, ‘Daylight Ghosts’ è il terzo a uscire con l’ECM, essendo stato preceduto da ‘Avenging Angel’ nel 2010 e dal bellissimo ‘Chants’ nel 2012. La prima cosa che si nota, confrontando ‘Daylight Ghosts’ con questi suoi predecessori, è il progressivo movimento di ampliamento di organico, nel senso che il disco del 2010 era per piano solo (formula con cui Taborn ama cimentarsi spesso, soprattutto nelle performance dal vivo) e quello del 2012 per la classica formazione del trio piano/contrabbasso/batteria, laddove l’ultima fatica discografica è realizzata con una formazione che, su una base di trio, innesta anche il sax tenore e il clarinetto. L’ampliamento non si poteva certo considerare una necessità obbligata, dal momento che un disco come il succitato ‘Chants’ (disco che il sottoscritto confessa di aver amato e amare molto, essendo stato oggetto di ascolti ripetuti e ripetuti e ripetuti ancora) appariva ben organico e completo, non bisognoso d’altro per così dire; e, dunque, l’ampliamento appariva anche come una sfida, piccola forse (trattandosi “solo” di un passaggio da trio a quartetto) ma comunque non da poco, non priva di rischi per così dire. Ad ogni modo, se di sfida si è trattato, allora possiamo dire che essa è stata raccolta da Taborn e che la prova è stata superata. ‘Daylight Ghosts’ infatti non delude affatto l’ascoltatore, anzi lo cattura fin dal primo brano, con l’apertura fulminante di The Shining One, e lo seduce e lo conquista progressivamente con lo snodarsi del disco di brano in brano, alternando momenti più meditativi e tendenti all’enigmatico, come ad esempio Subtle Living Equations, a brani dal profilo più nitido pur nel mantenimento di una certa opacità di fondo, quasi come se in un certo senso essi volessero “dire” e al contempo “non dire”, come la title-track e la vivace e fantasiosa New Glory. Su tutti, comunque, spicca a mio giudizio Ancient, pezzo lungo e sinuoso, con una sezione finale letteralmente irresistibile basata sugli “incastri” e gli “inseguimenti” tra piano e sax, sorretti da una base ritmica solida seppur quanto mai frastagliata. Il pianismo di Taborn conferma le qualità che abbiamo avuto modo di apprezzare in occasione di molte sue prove precedenti, come leader e come sideman (e, inoltre, tanto al pianoforte quanto al Fender Rhodes, col quale egli si cimenta con successo, ad esempio, nella formazione Underground capeggiata da Chris Potter): capace di lavorare “per sottrazione” quando ce n’è bisogno, ovvero quando ciò giova all’economia complessiva della composizione e dell’improvvisazione, e altresì capace di affascinanti e lunghe linee melodiche nei momenti che maggiormente lo richiedono, seppur senza rinunciare al suo tratto nervoso, quasi mai disteso o sereno (che spesso vuol dire anche banale, o almeno rischia di diventare tale…), sgorgante talvolta da cellule di poche note ripetute e trasformate, e un po’ tendente al “cerebrale” ma senza però smarrire immediatezza e incisività: un tratto che rappresenta un po’ un marchio di fabbrica di Taborn e un motivo di riconoscibilità e, dunque, anche di autonomia, di originalità.
Voto: 10
Stefano Marino