(ECM 2017)
Insieme a Brad Mehldau, Jason Moran, Craig Taborn e pochi altri, Vijay Iyer si può probabilmente considerare come uno dei pianisti jazz ‘relativamente giovani’ (intendendo con ciò i pianisti nati nella prima metà degli anni Settanta, quando erano da poco affermati o si andavano affermando in modo definitivo alcuni fra coloro che ormai consideriamo come veri e propri maestri: Hancock, Corea, Jarrett ecc.) più promettenti degli ultimi 10/15 anni, anzi ormai stabilmente affermatisi come punti di riferimento per i musicisti appartenenti a generazioni più recenti. Qualora ai lettori di Kathodik l’incipit della presente recensione non fosse suonato del tutto nuovo, per così dire, cioè avesse ricordato qualcosa di già letto di recente, dico subito che hanno ragione, che la loro impressione è corretta. Infatti, si tratta del medesimo incipit della mia recensione, da poco apparsa appunto su Kathodik, dell’ultimo cd del pianista Craig Taborn, con l’unico, ovvio accorgimento dell’inversione dei nomi di Iyer e Taborn all’inizio. Ciò è dovuto al fatto che, da quando li ho ascoltati per la prima volta, più o meno nello stesso periodo peraltro, ho considerato gli ultimi lavori di questi due straordinari musicisti, rispettivamente intitolati ‘Daylight Ghosts’ (Taborn) e ‘Far From Over’ (Iyer), come dischi per così dire gemelli, frutto di un parto gemellare seppur generati da padri diversi (volendo servirsi di questa tipo di metaforica). Entrambi usciti a nome di due fra i pianisti più promettenti della medesima generazione, entrambi usciti nello stesso anno, entrambi usciti per la medesima etichetta, entrambi interpretabili come un piccolo punto di svolta nella poetica e nella carriera di questi musicisti già semplicemente in virtù dell’ampliamento di organico che offrono rispetto alle loro ultime prove discografiche (dal piano solo e trio al quartetto nel caso di Taborn, dal piano solo, duo e trio al sestetto nel caso di Iyer), ho percepito e continuo a percepire i due dischi come strettamente, forse persino intrinsecamente interconnessi fra loro e legati da una reciproca corrispondenza. L’aver recentemente scoperto che Taborn e Iyer sono anche soliti esibirsi insieme in duo, cioè in concerti per due pianoforti (soluzione, quest’ultima, che nel jazz vanta innumerevoli precedenti, più o meno illustri e più o meno riusciti sul piano estetico), ha ulteriormente rafforzato la convinzione fin qui esposta e originariamente dettata unicamente dal mio orecchio, cioè dai ripetuti ascolti dei lavori passati di Taborn e Iyer e dall’ascolto dei loro due dischi dell’anno scorso. Una volta esaurite queste premesse e cercando ora di entrare rapidamente nello specifico delle cifre caratteristiche di un disco come ‘Far From Over’, quel che colpisce maggiormente è ciò che definirei con la formula un po’ ossimorica della ‘nitidezza dell’amalgama’. ‘Amalgama’, giacché è proprio questo uno dei punti di forza del sestetto: un sound solido, ricco, compatto, bene intrecciato, per così dire gustoso, capace di suscitare un senso di pienezza anche nei proficui momenti di svuotamento e rarefazione che si concede in alcuni brani. ‘Nitidezza’, giacché proprio questa è la qualità che sembra spiccare qui a tutti i livelli, cioè sia al livello del pianismo del leader (‘nitido’ persino quando si concede qualche cluster percussivo nonché, all’estremo opposto della sua gamma espressiva, quando si sofferma ossessivamente su singole note trasformate quasi in lacerti di temi e quando dà prova delle proprie capacità tecniche in parti soliste a volte meditative, a volte virtuose ed eleganti), sia al livello della sua qualità di scrittura, e sia infine al livello dell’interplay e delle modalità improvvisative generali dell’ensemble. Ottimamente ‘amalgamata’ e, al contempo, ‘nitida’ nel far risaltare le specificità dei singoli strumentisti (Graham Haynes, Mark Shim e un non di rado esaltante Steve Lehman al sax alto) è anche la sezione fiati del sestetto, a mio giudizio particolarmente efficace nella title-track e nel crescendo finale di Threnody. E molto bene assortita, infine, è anche la sezione ritmica, composta da Stephan Crump al contrabbasso e Tyshawn Sorey alla batteria: una sezione ritmica molto salda, molto ‘amalgamata’ al pianismo di Iyer (soprattutto quando quest’ultimo passa dal pianoforte al Fender Rhodes, come in Nope, forse uno dei brani funky più ‘stranianti’ che io abbia mai ascoltato), capace di sorreggere al meglio tutta la band e, al contempo, per nulla esitante nel concedersi giustamente una funzione di originale arricchimento sonoro, senza però andare mai sopra le righe. Una menzione speciale, a tal proposito, merita proprio il batterista, per la sua poliedricità nell’inserirsi in modo brillante in brani con metriche spesso ostiche, frammentate e frastagliate, ‘colorando’ l’insieme sonoro con passaggi su piatti e tamburi fugaci ma capaci di imprimersi nella memoria, nonché per gli assolo di batteria un po’ elvinjonesiani e jackdejohnettiani in Down To The Wire e Good on the ground che ne confermano la versatilità. Ottima prova per tutti, in definitiva, e promozione a pieni voti: se fossi in una seduta di laurea proporrei 110 e lode; qui, in una recensione, s’impongono le 5 stelline.
Voto: 9
Stefano Marino