(Dodicilune 2018)
‘Pinturas’ del chitarrista, compositore, arrangiatore e ‘conductor’ (nel senso che nel disco, in alcuni momenti, dà prova di sé anche nella pratica della ‘conduction’) Ugo Moroni è un bel disco jazz, in alcuni momenti un ottimo disco jazz: sono queste le parole, molto semplici e molto chiare, con le quali aprirei questa recensione. Parole semplici e chiare, per l’appunto, anzi a rischio di apparire banali, ma in realtà non scontate, se è vero che, che cosa sia esattamente ‘jazz’, e dunque che cosa sia un ‘bel disco jazz’, è oggi molto meno facile da dire, e dunque molto meno scontato e banale, di quanto non fosse anni fa, o meglio decenni fa. Il che, come ogni cosa, come ogni trasformazione, ha radici profonde, origini diverse e cause plurali, non riassumibili appieno qui, nel breve spazio di una recensione, ma certamente sintetizzabili nel dato di fatto (ben evidente a tutti coloro che, di recente, abbiano ascoltato anche solo qualche disco catalogato abitualmente come ‘jazz’) dell’apertura inusitata – quasi senza precedenti nella storia della musica – al contatto e all’interazione con materiali, forme, spunti e contenuti provenienti da ogni genere o tradizione, che il jazz ha conosciuto dagli anni Sessanta/Settanta in poi, rimodellando incessantemente la propria identità e rendendo quest’ultima sempre più fluida, sempre più dinamica e, per ciò stesso, sempre più indefinita e sfumata. Il che, anche qui, come ogni cosa, come ogni trasformazione, ha magari i suoi lati negativi ma certamente anche i suoi lati positivi. Ecco, ad ogni modo, quel che appare certo anche dopo il primo ascolto di ‘Pinturas’ di Ugo Moroni, e tanto più dopo ripetuti ascolti (che un’opera costruita e complessa indubitabilmente richiede all’ascoltatore non superficiale), è il fatto di trovarsi di fronte a un disco ‘jazz’, senza dubbi di alcun tipo sulla sua identità. E ciò accade per via del saldo radicamento di Moroni e del suo ampio organico (14, in tutto, essendo i musicisti coinvolti nell’operazione) in una tradizione, quella della storia del jazz, che seppur mobile e fluida e aperta come poche altre, ha comunque dei tratti molto caratteristici e ben visibili (anzi, ben udibili!), ha delle radici molto forti e ben riconoscibili; ha, insomma, degli aspetti che fanno sì che chiunque, all’ascolto per esempio dei primi 3/4 minuti di Saturno divora i suoi figli, la bella composizione con cui si apre ‘Pinturas’ (e che dopo 3/4 minuti, appunto, lascia anche spazio a una sezione un po’ più ‘free’, fatta di inseguimenti ravvicinati e sovrapposizioni spericolate fra gli strumenti), pensi subito: ‘questo è jazz’. Ed è a mio giudizio, come si diceva all’inizio, ‘buon jazz’, anzi in vari momenti ‘ottimo jazz’: ben pensato e ben suonato, capace di alternare sapientemente scrittura, improvvisazione libera e ‘conduction’ e altro ancora, senza però dar mai l’impressione (fra le più fastidiose nel caso di un disco jazz, che dovrebbe essere la musica che eleva la spontaneità a criterio per una prassi trasformata, in senso musicale ma non solo!) di affettazione o iper-costruzione, di sfoggio di maestria o virtuosismo, ma saldamente ancorato al principio-guida del jazz, a ciò che lo ha reso così affascinante in tutte le sue fasi dal be-bop al modale al free all’oggi: l’interplay, la conversazione vivente fra i musicisti, il dialogo. Una salda e determinata volontà di inserirsi nel solco della tradizione, di non lasciarsi alle spalle la tradizione (come se ciò, poi, fosse mai possibile, in generale!) ma di rielaborarla e viverla in modo spontaneo e personale, e di portarla avanti, è dunque una delle cifre stilistiche di ‘Pinturas’, ben evidente anche dagli altri brani composti da Moroni, e cioè Pinturas Negra e La Va di Goya, nonché dalla sua scelta di impreziosire il disco inserendo due riarrangiamenti di A foggy day di George Gershwin e di Demon’s dance di Jackie McLean. Cifra stilistica, peraltro, già evidente dalla precedente prova discografica di Moroni, ‘Ah-Ug’ del 2015, che poneva accanto a tre composizioni originali del chitarrista le riletture (anche qui per organico ampio, con la notevole cura per l’orchestrazione e la distribuzione di timbri e dinamiche che una scelta del genere comporta) di brani di Mingus, Monk e Hendrix, della cui ‘Vodoo child’ riaffiora peraltro un frammento di riff anche qui, nella parte centrale a carattere marcatamente sperimentale di Demon’s dance, in un modo insospettato che stuzzica l’ascoltatore con un sinuoso, sensuale intreccio fra chitarra e theremin. Seppur non direttamente legato alla sostanza intrinsecamente musicale dell’opera, meritano inoltre di esser segnalati l’artwork molto curato del disco, che riproduce in copertina una pittura a olio di Korvo, e le brevi ma dense considerazioni di Moroni su musica e pittura nel libretto del cd, dove si legge, a proposito di questa duplice fonte di ispirazione, che il disco ‘rappresenta l’incontro tra arte figurativa e musicale, le mie due più grandi passioni, [traendo] ispirazione dalla figura esoterica e inquisitoria del pittore Francisco Goya cui sono dedicati i brani ‘Pinturas Negra’, ‘La Va di Goya’ e ‘Saturno divora i suoi figli’. In essi, come nelle ‘Pitture Nere’ di Goya, Eros e Thanatos sono interpretati come aspetti unilaterali dell’essenza umana e di conseguenza legati tra loro da una continuità dialettica che viene espressa in musica attraverso gli opposti: melodia e rumore, pieno e vuoto, insieme alla scelta di musicisti molto diversi tra loro e appositamente associati proprio per questo motivo’.
Voto: 10
Stefano Marino