(42 Records 2018)
Il nuovo, recente disco dei Giardini di Mirò, intitolato ‘Different Times’, è un bel disco. Sono belle tutte le nove tracce di cui si compone (qualcuna di più, qualcuna di meno, ma in generale tutte). Sono belli gli arrangiamenti: soprattutto, in molti brani, gli intrecci e le sovrapposizioni di chitarre, che talvolta evocano il vortice, il magma, il coagulo di suoni (anche se, purtroppo, lo evocano soltanto, non lo realizzano mai). Sono belli i suoni, per così dire il ‘sound’ del disco, ed è molto curata la produzione, che fin dal primo ascolto fa capire come vi sia probabilmente dietro un grande, attento, meticoloso lavoro di costruzione. Ed è bella la ‘costruzione’, sia sul piano compositivo, sul piano della ‘costruzione’ in sé della forma dei singoli brani e dell’album nel suo complesso, e sia sul piano (che nella ‘popular music’ è spesso altrettanto importante, anzi in certi casi persino di più) dell’arrangiamento, del lavoro in studio di registrazione, della ‘costruzione’ nel senso della realizzazione complessiva del prodotto, dell’opera (che, appunto, richiede ben più che il semplice comporre ed eseguire le canzoni, per dirla in modo banale). Ma il problema, per dirla semplicemente, è che a volte il bello non basta. O meglio, più che: “non basta”, direi qui, nel caso specifico di questo disco: “non graffia”. Essa (vale a dire, la musica di ‘Different Times’ dei Giardini di Mirò), con la sua ‘costruzione’ bella e il suo equilibrio talvolta quasi perfetto, rischia di tendere al gradevole, al pulito, all’inoffensivo, al sognante, al rasserenante. Rischia di essere una musica a suo modo serena, a suo modo rassicurante. E questo, a mio modesto parere, pur con tutti i pregi di cui sopra (o, forse, proprio in virtù dei pregi di cui sopra), le fa anche correre il rischio di tendere in alcuni episodi al banale, al già-sentito, al non-necessario, insomma a qualcosa che, sì, si lascia ascoltare con piacere dalla prima all’ultima canzone, ma anche qualcosa di cui tutto sommato non si sentiva il bisogno. Qualcosa che si dimentica prima ancora che ci sia stato il tempo per ricordarsene, come nel caso di certe persone perfettamente curate che capita di incontrare nella vita ma che proprio per questo risultano inessenziali, laddove essenziali per noi risultano certe persone imperfette ma proprio per questo ricche, vivaci, imprevedibili, non-inquadrabili (di solito è di queste ultime che ci si innamora, non a caso: vale con le persone, vale con le canzoni). È un po’ come se tutto in ‘Different Times’ dei Giardini di Mirò fosse troppo perfetto, troppo curato, troppo privo di sbavature e della benché minima imperfezione (che, nella ‘popular music’, spesso vuol dire anche privo di espressione: dato che, nel contesto di una musica che si muove sempre, per sua natura, all’interno di un contesto industriale-culturale e sullo sfondo della standardizzazione imperante, ciò che consente di sfuggire allo standardizzato e di acquisire forza espressiva è non di rado proprio l’imperfetto, il fuori-contesto e il fuori-controllo, lo sgorbio inassimilabile che, fosse pure sotto forma di un feedback lasciato andare un po’ troppo o inserito nel momento meno opportuno, distrugge la parvenza di ordine e stabilità, e, generando instabilità, trasmette anche creatività ed espressività) per potersi imporre come un ascolto ‘importante’, per non dire ‘necessario’, in un panorama ricco, se non saturo, di uscite discografiche. La pecca di un disco del genere è di essere troppo impeccabile, per sintetizzare. Talvolta il miracolo riesce, come nella terza traccia ad esempio, Hold On, o anche nella sesta traccia, Void Slip, che ascolto dopo ascolto si sanno imporre sia per il carattere cristallino della ‘costruzione’, della fattura musicale in sé, sia per la capacità di infondere espressione a ciò che viene suonato, di farlo suonare come se da quelle note, e solo da quelle lì, e proprio da quelle lì, dipendesse tutto, dipendesse il significato della propria vita, dipendesse il sentire che ciò che si fa, e ciò che si è, ha un senso oppure o no (formule con cui riassumerei, in un modo chiaramente molto enfatico, anzi nel modo più enfatico possibile, il senso stesso dell’esprimersi, dell’espressione in musica, e forse nell’arte in generale). Ma talvolta, e anzi perlopiù, ciò invece non riesce, e allora la malinconia e la fragilità evocate dalle belle melodie e dalle belle armonie di ‘Different Times’ trascolorano impercettibilmente, senza quasi che ce ne accorgiamo, in qualcosa che non graffia, che non fa male, che non suscita emozioni, che non penetra dentro di noi, ma che viceversa rilassa, suscita benessere e gradevolezza, e scivola fatalmente per questo sullo sfondo anziché stagliarsi in primo piano, si lascia ascoltare aproblematicamente in sottofondo, e in modo ‘easy’, nella sua pura (ma al contempo mera) bellezza.
Voto: 6
Stefano Marino