(Public Eyesore 2018)
Originale menestrello agli albori degli ’80 del circuito No Wave & Avant, il chitarrista e multistrumentista Bill Brovold è una figura alquanto eclettica, cui piace giocare liberamente con l’arte in tutti i suoi rivoli: dalla pittura alla scultura, dalla composizione all’improvvisazione, passando il suo tempo libero nello studio newyorkese ad inventare enigmatici strumenti autocostruiti, e insegnando arte e free-music ai giovani allievi di una scuola pubblica della grande mela. Una mente così libertaria non può che svelarci un curriculum musicale di tutto rispetto in materia d’indipendenza: basta scoprire che a suo tempo intratteneva rapporti con l’ensemble di Rhys Chatham, tirava su band indipendenti, Larval e Strange Farm per citarne alcune, dove hanno militato anche pivellini del calibro di Billy Ficca (i Television dicono qualcosa?). In tempi recenti, dopo aver dato alle stampe un album dal sapore folk-roots in compagnia di Jamie Saft, “Serenity Knolls”, discretamente accolto dalla critica specializzata, Brovold se ne esce fuori con questa trovata dal tocco più minimal che, dalla scelta del titolo, sembra fare l’occhiolino alle celeberrime variazioni di Bach. In questo caso il protagonista del titolo è Michael Goldberg, un’artista visuale, uno spirito libero che ha contribuito per anni con la sua arte ad ispirare quella di Bill. Ad egli dedica quindi una lunga suite suddivisa in 12 frammenti, ognuno dei quali rappresenta una variazione, e viene suonata a turno dai membri dello Stone Soup, il collettivo piuttosto folto di musicisti coinvolto per l’occasione. A comparire nella scaletta dodici performer tra cui brillano i nomi del compianto Rhys Chatham, quello del violoncellista Fred Lonberg-Holm, Mark Ormerod (ad apertura e chiusura), Scott Burland, Frank Pahl e molti altri. Brovold in piena trance minimalista ed estatica abbraccia la chitarra, elaborando una base di note alquanto spartana che ripete per ogni brano in maniera quasi identica, giocando sulla costruzione armonica lenta e combinata di tre, massimo quattro note dalla consistenza velata, acquarellata, poco percettibile. A venirne fuori è una sottile litania di suoni ipoteticamente partoriti di notte al cospetto di uno scenografia desertica dove, secondo i rispettivi istinti, ogni ospite improvvisa sopra, creando così una determinata variazione dello stesso tema armonico. Suoni dall’indole quieta, quasi soporifera si manifestano soprattutto nella parte iniziale, lasciando il passo, solo raramente, a sporadiche parentesi più rumorose sciorinate verso il prosieguo. Un climax in generale rilassante e bluesy che non dispiacerebbe ai fan di Loren Mazzacane Connors, ma anche agli estimatori della scuderia di Montreal, Constellations.
Voto: 7
Sergio Eletto
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