(4AD 2019)
All’inizio della mia recensione dell’ultimo lavoro degli Afghan Whigs, pubblicata su Kathodik qualche tempo fa, scrivevo: “Se nel 1993 eri un adolescente un po’ problematico e, in particolare, col cuore perennemente spezzato, allora il disco assolutamente da non ascoltare era ‘Gentlemen’ degli Afghan Whigs. Manco a dirlo, quell’anno e negli anni successivi ho letteralmente divorato quel disco […]. Se nel 1996 eri un ragazzo all’inizio del percorso universitario e con una condizione emotiva non granché differente da quella di 3 anni prima, allora il disco assolutamente da evitare era ‘Black Love’ degli Afghan Whigs. E naturalmente, invece, quell’anno e negli anni successivi mi sono immerso in fondo fin nei dettagli più nascosti di ogni canzone di quell’album, lasciandomi dolcemente avvelenare dall’‘amore oscuro’ di Dulli & soci. E se nel 2017 sei ancora un tipo un po’ incasinato interiormente (seppure in modo diverso che in passato, avendo (s)fortunatamente guadagnato nel frattempo un qualche tipo di equilibrio), beh allora cosa faranno gli Afghan Whigs? Dopo una pausa di 3 anni dal precedente ‘Do to the Beast’ rieccoli qui con un nuovo album, intitolato ‘In Spades’ […]: l’ennesimo album dal quale tenersi alla larga se si vogliono evitare scompensi emotivi e al quale invece, com’era ovvio, ho dedicato decine di ascolti”. Bene, se mi sono permesso qui il discutibile lusso dell’autocitazione (perdonabile, spero, solo in virtù dell’autoironia e dell’atteggiamento di non prendersi troppo sul serio) è solo perché, pur nella grande differenza fra due band come Afghan Whigs e The National, e dunque anche nella differenza fra il loro modo di affrontare e trattare musicalmente e poeticamente certe tematiche nei loro brani, ritengo che parte di ciò che scrissi a proposito di ‘In Spades’ si applichi bene anche a ‘I Am Easy To Find’, l’ottavo album della band di Matt Berninger e dei fratelli Dessner e Devendorf. Vale a dire, persone particolarmente sensibili o che si trovino in un periodo sentimentalmente complicato della propria vita farebbero bene a tenersi alla larga da questo disco, perché già il primo brano, You Had Your Soul with You (uno dei più riusciti del disco, con il suo andamento musicale volutamente sbilenco fratturato da inserti dissonanti delle chitarre, fino ad arrivare al momento centrale di pausa, rarefazione e apertura impreziosita dalla voce femminile, e con i suoi magnifici versi ‘You felt like heaven stood up with you / You said love fills you out / It moves you from the skeleton and pulls you around / I got it worse than anyone else / And I just can’t find a way to forgive myself / I had only one thing left / And I couldn’t see it yet / I have owed it to my heart every word I’ve said / You have no idea how hard I died when you left’), potrebbe penetrargli a fondo nell’animo e affondare lentamente la lama dentro di loro. Va da sé che, al contrario, proprio come nel caso degli Afghan Whigs, ascoltatori del genere saranno irresistibilmente attratti dalla malinconia dolce, suadente, sofisticata ma insieme essenziale, intonata con voce baritonale e in vari brani invece sussurrata da voce di donna, di ‘I Am Easy To Find’, e troveranno in un disco del genere alimento per le proprie sofferenze ma, soprattutto in alcuni brani, anche una forma vellutata di sollievo per esse. L’ultimo disco di The National (che segue di sei anni il riuscitissimo ‘Trouble Will Find Me’ e di due anni il leggermente meno riuscito ‘Sleep Well Beast’, e che è accompagnato da un omonimo, affascinante cortometraggio di 24 minuti diretto da Mike Mills e interpretato meravigliosamente da Alicia Vikander), si compone di 16 brani, tutti molto originali e intensi, fra i quali, dovendo scegliere, selezionerei come vere e proprio gemme, oltre alla succitata You Had Your Soul with You e alla bellissima, poetica, dolente ‘title-track’, i brani Quiet Light, Roman Holiday, Rylan e, su tutti, i lenti e magniloquenti So Far So Fast e Light Years, da annoverare fra i brani più riusciti di sempre di The National. Pur mantenendo l’inconfondibile cifra stilistica di una poetica musicale sviluppatasi senza fretta (lo testimoniano le uscite discografiche parsimoniose e distillate negli anni) ma con grande coerenza, costanza, forza e sostanza, e pur mantenendo l’immediata riconoscibilità del sound della band grazie alla voce di Berninger, ai sapienti intrecci sonori creati dai fratelli Dessner e alla solida e affiatata sezione ritmica, rispetto agli ultimi dischi ‘I Am Easy To Find’ si contraddistingue anche per una marcata volontà di esplorare sentieri parzialmente diversi, di sperimentare combinazioni sonore mai tentate finora da The National, di arricchire e impreziosire il sound della band con soluzioni musicali che colpiscono al primo ascolto e che richiedono un’attenta attività di ascolto da parte dell’ascoltatore per essere assimilate, comprese e fatte proprie: un ‘ascolto strutturale’ in luogo di una ‘fruizione distratta’, per adattare qui liberamente due celebri concetti di Adorno e Benjamin. Possono valere come esempi di ciò che ho appena descritto proprio l’incipit chitarristico di You Had Your Soul with You, il tappeto sonoro quasi ambient su cui snoda il pacato e insieme doloro incedere di So Far So Fast, e l’inafferrabile ed eterea atmosfera di distensione e finanche sospensione del tempo che ci regala la conclusiva Light Years, come se Berninger & soci con ‘I Am Easy To Find’ avessero voluto, da un lato, protendersi in avanti nella ricerca del musicalmente nuovo rispetto alle pur ottime consuetudini a cui ci avevano abituati con i loro dischi precedenti, e, dall’altro, spingersi indietro in una quasi proustiana ricerca del tempo perduto che la tristezza bella di certi versi di I Am Easy To Find sa oggettivare in un modo che continua ad ammaliare e affascinare anche dopo decine di ascolti (‘How long have we been here? / Am I ever coming down? / I need to find some lower thinking / If I’m gonna stick around / I’m not going anywhere / Who do I think I’m kidding? / I’m still standing in the same place / Where you left me standing / I am easy to find / Towers to the skies / An academy of lies / You never were much of a New Yorker / It wasn’t in your eyes / If you ever come around / This way again, you’ll see me / Standing in the sunlight / In the middle of the street / I am easy to find / There’s a million little battles that I’m never gonna win, anyway / I’m still waiting for you every night with ticker tape, ticker tape’). Per chiunque si sia trovato anche solo una volta nella vita (o magari invece malauguratamente più e più volte) nella condizione esistenziale espressa da questi e altri versi, l’ultimo lavoro di The National è un disco assolutamente da avere e insieme da non avere: ‘I Am Easy To Find’ potrebbe fargli/le infatti molto bene e contemporaneamente molto male, come è del resto da sempre prerogativa delle opere d’arte che sanno scavare a fondo dentro di te e, in una maniera magica e misteriosa, sembrano conoscerti da decenni e molto più in profondità anche rispetto alle persone che ti stanno accanto da una vita.
Voto: 10
Stefano Marino