(ECM/Ducale 2019)
‘Common Practice’ è una recente prova discografica di Ethan Iverson, pianista statunitense noto soprattutto per essere stato uno dei membri fondatori del trio jazz eclettico o, se si vuole, sperimentale e ‘avanguardista’ The Bad Plus. Un trio, quest’ultimo, la cui produzione è stata caratterizzata da un repertorio ampio e variegato spaziante dagli standard jazz a diversi brani pop-rock o composizioni primo-novecentesche (come la ‘Sagra della primavera’ di Stravinskij) rivisitati in chiave jazz, e in cui Iverson ha militato stabilmente dal 2000 al 2017. ‘Common Practice’ è dunque una prova discografica solista di Iverson nelle sue nuove vesti di leader di un quartetto che annovera fra i suoi membri, oltre allo stesso Iverson al piano, partner molto affidabili alla sezione ritmica come Ben Street al basso ed Eric McPherson alla batteria, nonché un esponente straordinario se non proprio leggendario del jazz degli ultimi decenni come Tom Harrell alla tromba. A partire da questi elementi, l’ascoltatore che si accosti all’esperienza musicale di ‘Common Practice’ potrebbe essere legittimamente animato da grandi aspettative e affrontare tale esperienza con l’attesa di trovarsi di fronte, se non proprio a un capolavoro, comunque a un lavoro di notevole rilievo per il panorama jazzistico attuale. Purtroppo, dopo ripetuti e attenti ascolti, bisogna ammettere che tali aspettative e tali attese restano in buona parte deluse. Il disco, infatti, che scaturisce peraltro da una performance ‘live’ del quartetto di Iverson al Village Vanguard nel gennaio 2017, pur aprendosi con una pregevole rilettura del classico di George e Ira Gershwin The Man I Love inaugurata da accordi suggestivi e spettrali di Iverson al pianoforte, nei successivi dieci brani si dispiega lungo il sentiero di un jazz sicuramente colto, elegante e ineccepibilmente eseguito da tutti i membri della band, ma altresì tendente al già noto, al giù udito o al ‘pre-digerito’ per usare una caustica categoria interpretativa di Adorno. In altre parole, ‘Common Practice’ si muove su un terreno tendente a una classicità jazz che rende l’esperienza d’ascolto gradevole e talvolta rilassante, ma al contempo (e proprio per questo) poco originale e stimolante, cioè più vicina a una forma sofisticata di ‘easy listening’ che agli esiti appassionanti e spesso sperimentali a cui Iverson ci aveva abituati con i Bad Plus. Insomma, un ottimo esercizio di stile da parte di musicisti sicuri di sé e certamente padroni dei propri strumenti e dell’arte raffinata dell’interplay, ma che purtroppo non aggiunge granché di nuovo a ciò che già conoscevamo del jazz e si limita troppo spesso a ripetere manieristicamente gesti e stilemi a cui l’ascoltatore non ingenuo e non alle prime armi è già fin troppo abituato. In definitiva, un’occasione mancata: così è probabilmente possibile definire in poche parole un disco come ‘Common Practice’.
Voto: 4
Stefano Marino