(Monkeywrench/Republic Records 2020)
All’inizio del libro di Simone Dotto ‘Pearl Jam. Still Alive. Testi commentati’ (2014) vengono riportate due dichiarazioni sulla band di Seattle che recitano, rispettivamente: ‘In un certo senso i Pearl Jam mi sembrano più vecchi di me’ (Neil Young), e: ‘La prospettiva dei Pearl Jam è umanistica, rincuorante, coinvolgente e quindi profondamente tradizionale’ (Simon Reynolds). Si tratta di due dichiarazioni che, per quanto diverse fra loro (fosse anche soltanto per il fatto che provengono da fonti diverse, e cioè rispettivamente da uno dei più importanti cantautori dagli anni ’70 a oggi e da un noto e stimato saggista e critico musicale), appaiono entrambe sensate, legittime e condivisibili, seppur con almeno una piccola specificazione, nel senso che, sì, una parte consistente del repertorio dei Pearl Jam può essere legittimamente definita come ‘rincuorante’, questo è vero, ma una parte non meno consistente del loro repertorio risulta tutt’altro che rincuorante ed è semmai definibile con termini quali ‘feroce’, ‘aggressiva’, ‘tormentata’, a volte persino ‘devastante’ (giacché, a mio parere, da sempre oscillante fra rabbia e saggezza è la poetica dei Pearl Jam). Si tratta anche di due dichiarazioni, quelle di Neil Young e Simon Reynolds, che, se collocate in apertura a una recensione del recentissimo, ultimo disco dei Pearl Jam, potrebbero anche far storcere il naso a qualche fan della band di Seattle che magari non gradirà l’accostamento del termine ‘vecchio’ a ‘Gigaton’ (il disco dei Pearl Jam pubblicato poche settimane fa). Se così fosse, tuttavia, si tratterebbe di un errore, di un fraintendimento, di una frettolosa e fuorviante interpretazione, dal momento che ‘vecchio’ è un termine applicabile non senza ragione alla musica di una band come i Pearl Jam e dal momento che, però, non necessariamente un tale termine va inteso in maniera critica o persino offensiva. Infatti, se la logica della ricerca del ‘nuovo’, sempre e a tutti i costi, è coerentemente e per così dire ineludibilmente la legge di sviluppo di alcune forme espressive (nella maniera più chiara ed evidente, nel caso dell’arte d’avanguardia), ciò non significa che nel caso di altre forme espressive (come la musica rock, nel nostro caso specifico) un uso sapiente, accorto o persino strategico dell’esatto opposto del ‘nuovo’, ovvero appunto del ‘vecchio’, possa risultare esteticamente significativo ed efficace, senza che il risultato debba per forza consistere in qualcosa di ‘standardizzato’, ‘kitsch’ o ‘masscult’ (per dirla con le categorie di tre grandi critici della cultura di massa e, segnatamente, della ‘popular music’: Adorno, Greenberg e Macdonald). Tenere conto di tutto ciò, a mio avviso, è molto importante sia per capire in generale una forma espressiva come la musica pop-rock che, nel bene e nel male, condiziona i nostri gusti e riempie le nostre vite da molti decenni, sia per capire in particolare una band come i Pearl Jam che, fatti salvi alcuni momenti vagamente definibili come ‘sperimentali’ in certi album e in alcune singole occasioni (come nel caso di Dance of the Clairvoyants, primo singolo tratto da ‘Gigaton’ che ha spiazzato un po’ tutti i fan), hanno fatto proprio dell’aderenza senza problemi o ripensamenti a una sorta di ‘classicità’ rock una delle cifre della propria poetica musicale. E tenere conto di tutto ciò, a sua volta, non è irrilevante per accostarsi a ‘Gigaton’, la nuova fatica discografica di Vedder, Gossard, McCready, Ament e Cameron che arriva a ben 7 anni dal precedente album, ‘Lightning Bolt’ del 2013, e a 11 anni da ‘Backspacer’ del 2009. Infatti, ad eccezione della succitata Dance of the Clairvoyants, caratterizzata dall’inserimento di un’inedita (e, a mio giudizio, ben riuscita) componente elettronica/dance nel sound dei Pearl Jam, e ad eccezione di qualche altro spunto un po’ più particolare (e, anche qui, secondo me ben riuscito) in brani come Quick Escape o Alright, il resto di ‘Gigaton’ non sorprende particolarmente per novità o cambiamenti spiazzanti rispetto a ciò che si poteva legittimamente attendere dai Pearl Jam e, aggiungo, non delude affatto le aspettative dell’ascoltatore. Infatti, rispetto ai succitati ‘Lightning Bolt’ e ‘Backspacer’, a mio avviso ‘Gigaton’ risulta superiore sia sul piano della qualità media delle canzoni e sia, soprattutto, sul piano del sound generale del disco, un po’ meno denso e rotondo rispetto agli ultimi dischi e proprio per questo capace di colpire maggiormente l’ascoltatore. Ciò non toglie però che, secondo me, molti brani di ‘Gigaton’ (a partire dalla sequenza iniziale di brani rock molto diretti ed efficaci con Who Ever Said e Superblood Wolfmoon, per proseguire con brani più lenti e meditativi come Seven O’ Clock o Buckle Up) avrebbero comunque beneficiato di un trattamento parzialmente diverso in sede di produzione, in grado di restituire appieno ai Pearl Jam un sound ancor più grezzo e magari imperfetto ma proprio per questo più adatto a loro e, proprio per questo, paradossalmente (ma non troppo, nel caso di una musica in sé paradossale come il rock, giuste le considerazioni poste all’inizio di questa recensione) perfetto nella sua imperfezione. Si tratta, per intenderci, del sound di dischi come ‘Vitalogy’ (1994), ‘No Code’ (1996), ‘Yield’ (1998), ‘Pearl Jam’ (2006) o anche ‘Mirror Ball’ (1995), il leggendario disco di Neil Young con i Pearl Jam come partner musicali. In fin dei conti, come insegna proprio Dance of the Clairvoyants (brano, fra le altre cose, ricchissimo di spunti di riflessione nel testo e, per questo, molto adatto per un approfondimento in chiave filosofica per ‘Pearl Jam and Philosophy’, il libro in preparazione per l’editore Bloomsbury Academic Publishing nel 2021): ‘Expecting perfection leaves a lot to ignore’, o no? Non di rado nella storia del rock l’imperfezione si è rivelata essere uno strumento prezioso per giungere a un risultato musicale perfetto, e questo, come dicevo, vale sia in generale, sia in particolare per i Pearl Jam. A soffrire particolarmente di un sovrappiù di produzione, per così dire, è secondo me la bellissima canzone con cui si conclude ‘Gigaton’, ovvero la toccante River Cross che avevamo già potuto ascoltare in apertura dell’indimenticabile concerto di Eddie Vedder a Firenze nel 2019 e che lo stesso Vedder ha eseguito in solitaria pochi giorni fa, il 18 aprile, nel contesto della maratona ‘live’ online ‘One World: Together At Home’. Una canzone, River Cross, che a mio modesto parere avrebbe concluso ‘Gigaton’ in modo molto più degno e appropriato in una versione puramente acustica, cioè nella versione per sola voce e organo che Vedder ha eseguito in solitaria nelle suddette occasioni, anziché nella versione arrangiata in modo ben più ricco e completo (ma, paradossalmente, proprio per questo più incompleto e mancante dell’essenziale) che si ascolta su disco. Là dove, dicendo che con un tale surplus di produzione e arrangiamento viene a mancare l’essenziale, intendo dire che si smarrisce in parte la nudità, fragilità e vulnerabilità di quell’io narrante che in River Cross ammette con disarmante sofferenza e ammirevole onestà: ‘I always thought I’d cross that river / The other side, distant now / As I got close it turned and widened / Horizon now, fading out / Drifting off in the undertow / Can’t spot a figure on dry land / And afterthoughts of safety / When in truth, none to be had’, e che poi però alla fine del brano si rialza da terra, esce dall’oscurità, lancia un’occhiata verso il filo di fioca luce residua a cui ci si può ancora aggrappare ed esclama: ‘Look around at the promise now / Here and now / Can’t hold me down / Won’t hold us down / Live it out / Let it out / Get it out / Shout it out / Share the light / Won’t hold us down’. Talvolta nell’arte ‘Less is More’, come recita il celebre motto di Ludwig Mies van der Rohe, e come ho già detto una tale filosofia si può ben applicare anche alla musica rock, in generale, e ad una band come i Pearl Jam, in particolare. Ciò non toglie, naturalmente, che alcune delle piccole novità che si sono concessi i Pearl Jam in ‘Gigaton’ risultino pregevoli e a volte arricchiscano effettivamente la qualità dei brani. Del resto, tutte le canzoni di ‘Gigaton’, come sempre nel caso della band di Seattle, avrebbero probabilmente manifestato appieno il proprio potenziale e dato il meglio di sé dal vivo, la dimensione più naturale per quegli imbattibili animali da palco che sono ancora oggi i Pearl Jam, come ben sa chiunque li abbia visti in azione nei loro tour italiani (il ricordo dei concerti di Verona e Milano 2000, Bologna 2006 e Padova 2018, sotto questo punto di vista, è ben vivo nelle orecchie e nel cuore di chi scrive). Per questo, purtroppo, sarà tuttavia necessario aspettare almeno fino al 2021, vista la recentissima e prevedibile cancellazione del tour dei Pearl Jam.
Voto: 6
Stefano Marino