(Dugnad Records 2020)
L’articolazione strutturale di questo lungo brano (38 minuti) della batterista e compositrice slovacca Michaela Antalová per un’orchestra di 14 elementi eseguita dall’ensemble norvegese Ojkos (la cui formazione di 11 strumenti è integrata per l’occasione da arpa, violino e sassofono contralto) sembra piuttosto tradizionale e, almeno al principio, sembra scorrere placida nell’alveo del genere minimalista. Conformemente alla metafora marina evocata dal titolo dell’album dedicato al dio Nettuno, qualche increspatura cadenzata smuove la fluidità di una massa sonora polifonicamente stratificata, gradualmente intensificando volumi, dinamiche e impasto sonoro e poi altrettanto lentamente indebolendoli dopo aver raggiunto l’apice nel momento centrale della sua durata sfociando in un’improvvisazione collettiva per poi aprirsi all’emergere solistico del sax contralto (Signe Emmeluth). Molto schematicamente, un organismo sonoro in fieri evolve alimentando se stesso lentamente, giunge al culmine energetico della sua esistenza, e poi scemati nuovo molto lentamente.
In realtà, però, il velo della semplicità melodica iniziale e dello schema strutturale della composizione cela, nonostante l’insistita ripetitività di certi elementi, una notevole complessità del tessuto musicale che costituisce il brano, soprattutto in virtù dell’incastro tra i diversi contributi orchestrali, la lenta alternanza e poi il ritorno circolare su se stessi degli episodi, il contributo dell’improvvisazione libera dei fiati, l’intenso lavoro delle percussioni, l’inserimento di alcuni passaggi obbligati, lo sviluppo di momenti ritmicamente sinuosi e coinvolgenti e di altri quasi-orientaleggianti (dovuti soprattutto alle melodie dei flauti). Un lavoro interessante, che in un primo momento avevo pensato di definire pseudominimalista e che dopo averlo riascoltato un po’ più attentamente mi pare sfuggire a etichettature troppo sbrigative.
Voto: 7,5
Alessandro Bertinetto