(Tempo Reale 2020)
Nel 1990, nel presentare i caratteri e i propositi del centro di ricerca Tempo reale, del quale è stato direttore artistico dalla sua fondazione fino al 2000, Luciano Berio ha tenuto a precisare come negli studi che fanno uso di tecnologie molto avanzate l’obiettivo non è tanto quello di creare suoni nuovi, quanto quello di «definire e sviluppare organismi concettuali capaci di generare processi musicali nuovi eventualmente segnalati, appunto, da suoni nuovi». Ciò significa non persistere nella contrapposizione tra mezzi strumentali tradizionali e nuove tecnologie, ma invece aprirsi alla complementarità tra queste dimensioni, purché sostenuta da valide scelte musicali, poetiche ed estetiche. Di questa interazione, alla quale si aggiunge un notevole grado di improvvisazione, è testimonianza anche l’ultimo interessantissimo lavoro dello Zumtrio, intitolato ‘Radioscapes’, prodotto appunto da Tempo Reale, diretto dal vulcanico e visionario Francesco Giomi.
‘Radioscapes’, nelle intenzioni dei musicisti coinvolti (Francesco Giomi alla radio e ai sintetizzatori, Francesco Canavese alla chitarra elettrica e Stefano Rapicavoli alla batteria e alle percussioni), si presenta come un progetto dal carattere “elettrico” e, potremmo dire, “crossover”, nel quale suggestioni provenienti dall’elettroacustica storica si mescolano a libere divagazioni improvvisative dalla fattura schiettamente urbana e contemporanea.
Nella prima delle tre tracce dell’album, Un tavolino a parte (21’05”), un’immediata scarica “glitch” colpisce l’ascoltatore, catalizzando immediatamente tutta la sua attenzione. “A me le orecchie”, sembra volerci dire lo Zumtrio, che procede subito con l’alternare schegge strumentali dal sapore jazz a squilli glitch e a interferenze radiofoniche. In questa selva di suoni, si fanno strada brandelli vocali e radiofonici sullo sfondo di una sempre più incalzante e inquietante pulsazione che sembra provenire dal mondo meccanico. Si oscilla tra ricordi di serenità passate e un angosciante ritmo che si avvicina al minaccioso, al quale segue un’improvvisa quiete punteggiata da singole emissioni vocali della chitarra elettrica che lasciano l’ascoltatore in attesa di qualcosa. Suoni acuti e interferenze, allora, ritornano, frammisti a tracce di annunci radiofonici (caratteristica, questa, presente in tutto il lavoro e che sembra richiamare il famoso Efebo con radio di Salvatore Sciarrino). A questo punto, dove ci si trova? Gradualmente, sempre con inserti vocali come quelli che si ascoltano facendo zapping tra diversi canali radio e con incursioni delle percussioni, va spegnendosi l’enfasi urbana quotidiana nella lentezza e nella dissolvenza, forse, di un distopico notturno.
California (9’27”) emerge dal silenzio e da frammenti fonetici, con la chitarra elettrica che ammicca a sonorità da rock psichedelico. Il paesaggio sonoro resta tendenzialmente tanto illusorio quanto realistico, reso però più quotidiano dalla scelta dei fonemi e dai suoni concreti che di tanto in tanto si fanno largo. Inaspettatamente (ma neanche troppo, dato il titolo della traccia), la “radio” passa l’incipit ed estratti dalla mitica Hotel California (1976), singolo degli Eagles vincitore di un Grammy nel 1978. L’ambiguità che avvolge la canzone acquisisce qui il tono dello straniamento tecnologico, della spazializzazione angosciante e di un oscuro presagio. Voci, suoni, sequenze ritmiche diversificate e molto interessanti si alternano a suoni sintetici che lasciano immaginare una situazione improvvisatoria, realizzata grazie a un’ottima gestione degli strumenti, tanto dal punto di vista puramente tecnico quanto da quello creativo.
All’improvvisa conclusione della seconda traccia segue Giornate colorate (21’43”), che presenta nuovamente una sequenza di annunci e stralci radiofonici, interrotti da sferzate della chitarra elettrica e della batteria. Un lungo e penetrante suono elettronico, raddoppiato e modulato, fa da sfondo a ulteriori incursioni concrete e alla punteggiatura intermittente della chitarra elettrica e delle percussioni, sempre più presenti. Ci si muove, a metà traccia, in direzione di un’acme sonora che sembra puntare verso la saturazione del tempo e dello spazio. Sibili e acuti prolungati, senza ritmo e senza base, come sospesi in una dimensione del tutto astratta, occupano poi la scena, lasciando spazio a rapide pulsazioni glitch che, come in un movimento circolare, iniziano ad accompagnare l’ascoltatore verso uno scenario sonoro simile a quello iniziale. Si tratta però di una “falsa ripresa”, giacché il discorso musicale prosegue ancora, tra paesaggi lunari, impressioni urbane, sospensioni psichedeliche e interferenze radiofoniche che scivolano, su un tappeto elettronico, verso un ultimo placido fremito di chitarra e batteria.
Voto: 9
Giacomo Fronzi