(Artists Share, 2020)
Viviamo in un’epoca in cui, per motivi anche comprensibili e ragionevoli, raramente tendiamo ormai a usare termini enfatici, altisonanti e ambiziosi come ‘grande opera’ o ‘capolavoro’. Nell’epoca in cui, come si dice spesso, tutte le arti sono diventate ‘minori’ e molte differenze tradizionali fra ‘musica seria’ e ‘musica leggera’, o fra ‘cultura alta’ e ‘cultura bassa’, sembrano essere state livellate, diminuite o persino azzerate (spesso per ottimi motivi, peraltro), l’adozione di un certo ‘understatement’ e, dunque, di un atteggiamento più pacato e umile sia nel creare che nell’esprimere un giudizio su una creazione artistica, appare come una consuetudine a cui, per i motivi di cui sopra e ancora per altri motivi, appare sensato e per nulla strano attenersi. Tuttavia, nel caso di ‘Data Lords’, il recente doppio album della Maria Schneider Orchestra, vorrei concedermi il lusso di scomodare quelle categorie che oggi possono forse apparire un po’ antiquate e fuori moda, per parlare esplicitamente, senza mezzi termini, di ‘capolavoro’. In virtù della qualità musicale di questo ampio e variegato lavoro per ‘big band’ che, a mio giudizio, è semplicemente eccellente, credo che un tale giudizio, in questo caso, non sia fuori luogo, bensì ampiamente meritato. Basato su una complessa, stratificata, stimolante e spesso oscura, critica e graffiante visione del mondo contemporaneo e, soprattutto, del ruolo svolto in esso dai mass media, da Internet, dall’intelligenza artificiale, dalle grandi multinazionali e dal loro sfruttamento dell’esperienza umana al mero fine del profitto e del controllo, ‘Data Lords’ (che offre, oltre a due CD musicalmente ricchissimi, anche un elegante libretto interno pieno di informazioni sui musicisti coinvolti, sui tempi e i modi della registrazione del disco, sul senso di ciascuna composizione e, appunto, sulla concezione non solo musicale ma anche esistenziale e sociale che sta alla base di questo progetto) può essere inteso come una sorta di ‘concept album’ strumentale che gioca in modo estremamente sapiente con i diversi linguaggi del jazz, non esitando ad avventurarsi in territori di stranianti dissonanze nel caso di alcuni brani. Suddiviso in due parti – intitolate ‘The digital world’ e ‘Our natural world’, e rispettivamente articolate in 5 e in 6 lunghe e affascinanti composizioni per il ricco e variegato organico di una ‘big band’ comprendente (oltre alla stessa Maria Schneider come autrice di tutte le composizioni e direttrice d’orchestra) musicisti di altissimo livello come Steve Wilson, Dave Pietro, Rich Perry, Donny McCaslin, Scott Robinson, Tony Kadleck, Greg Gisbert, Nadje Noordhuis, Mike Rodriguez, Keith O’Quinn, Ryan Keberle, Marshall Gilkes, George Flynn, Gary Versace, Ben Monder, Frank Kimbrough, Jay Anderson e Jonathan Blake –, ‘Data Lords’ si impone fin dai primissimi brani, gli straordinari A world lost e Don’t be evil, come un’opera di livello decisamente superiore alla media di ciò che siamo probabilmente abituati ad ascoltare oggi: un’opera frutto di una profonda conoscenza musicale, di una grande padronanza delle dimensioni sia della composizione che dell’esecuzione ed improvvisazione, e di una non meno grande passione tanto musicale quanto generalmente umana che fa sì che pressoché ogni nota di ‘Data Lords’ trasudi eleganza, sofisticazione, complessità e, al tempo stesso, forza espressiva genuina, carica dirompente e magia sonora ammaliante.
Voto: 9
Stefano Marino