Ho conosciuto l’opera teorica e gli studi della musicologa Laura Zattra quando ho vagato in rete cercando testi che parlassero in maniera comprensibile della Computer Music (ne parlo anche nell’intervista). Dalla lettura del volume è seguito l’approfondimento sulle ricerche portate avanti dalla studiosa, l’acquisto di altri volumi fino al punto che diventavano obbligatorie le Quattro Chiacchiere Digitali di approfondimento. Dall’altra parte estrema disponibilità al chiarimento dei miei punti oscuri e quanto sotto riportato (nella foto in home tête-à-tête con la testa binaurale del CSC – Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova):
Quali sono i tuoi esordi nella ricerca? Come è nata la passione per la musica, e in special modo per la musica elettronica?
(foto durante una conferenza presso l’IRCAM di Parigi) Fu un battesimo del fuoco, un’esperienza entusiasmante durata un anno e mezzo. Era il 2000 e lavoravo alla tesi di laurea. Ricostruii la storia del Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova. Per me fu meraviglioso tuffarmi per mesi negli archivi del centro e parlare con i suoi protagonisti che intervistai per ore. Registrai tutto in audiocassette con un walkman Sony degli anni Novanta che conservo ancora. Inoltre gli archivi non erano organizzati perciò si trattò proprio di sporcarsi le mani, anche di polvere, spulciando in scaffali e cassettiere con documenti molto diversificati per tipologia e contenuti. In quell’occasione scoprii la figura importantissima di Teresa Rampazzi. Insomma, fu un’esperienza formativa indimenticabile. Ma in realtà amavo già la musica contemporanea perché due anni prima avevo frequentato gli Internationale Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt come flautista. Ricordo che per la tesi di laurea inizialmente avevo pensato di approfondire l’influenza del flautista Severino Gazzelloni nella musica contemporanea, le sue collaborazioni e le prime esecuzioni (Gazzelloni era stato uno dei massimi esecutori a Darmstadt). Poi invece scelsi di approfondire la storia del CSC. Fu per me una fortuna. Da quel momento in poi ho incontrato tanti compositori, ricercatori, musicisti, artisti e musicologi e ho potuto immergermi in archivi fisici e digitali, privati e istituzionali.
A proposito di interviste e registrazioni: quanto importanti sono nella ricerca? Possono essere considerate fonti altrettanto importanti quanto quelle che si possono toccare con mano?
Nella maniera più assoluta. Come storica e filologa pongo sullo stesso piano le fonti materiali e le fonti orali, perché quando si fa storia contemporanea possiamo parlare con i protagonisti, farci raccontare i dietro le quinte, addentrarci in aspetti che non compaiono nelle fonti cartacee o negli archivi. Naturalmente le fonti orali vanno trattate con cautela perché quando si parla conta molto anche il tono di voce, la gestualità, l’intonazione, subentrano aspetti legati alla memoria, al tipo di personalità di chi parla o anche all’atmosfera più o meno rilassata che si riesce a creare durante un’intervista. Ne parlato anche recentemente in un mio articolo online.
Hai pubblicato, oramai un po’ di tempo fa il volume ‘Studiare la computer music’, dedicato a capire la tecnica e l’estetica della ‘Computer Music’, attraverso esempi e spiegazioni puntuali. Ad oggi, se non vado errato, risulta forse l’unico testo comprensibile di introduzione alla Computer Music, spiegata in un linguaggio molto chiaro e interessante (confermato da chi scrive “proto-neofita”, prima di leggere il volume in questione). Come è nata l’idea del volume?
(Foto di Sabrina De Gaetano – tappeto optical dell’artista Diana Baylon (1920-2013) che collaborò anche con Teresa Rampazzi) Sono passati già 10 anni. Il pensiero è quasi insopportabile. Comunque non è l’unico testo dedicato alla musica informatica, ma in effetti ho voluto trattare l’argomento con un approccio analitico-socio-storico a differenza di altri volumi in italiano che approfondiscono aspetti legati alla programmazione o a programmi specifici, all’acustica e psicoacustica. Ero partita da questa riflessione: l’era della Musica Informatica è terminata – l’epoca storica, intendo dire, dall’intuizione nei tardi anni Cinquanta di usare il computer per fare musica e suoni, al tempo differito, al tempo reale, ai primi programmi di aiuto alla composizione. Dagli anni Duemila abbiamo assistito alla diffusione di massa di programmi di composizione, processamento del segnale, mixaggio, DAW, anche sui dispositivi portatili e per l’entertainment. Sono subentrate nuove estetiche musicali iniziate con l’utilizzo di guasti e malfunzionamenti come materiale sonoro. Si è assistito al fenomeno del ritorno di tecnologie ‘antiche’ e sintetizzatori vintage. Insomma, c’è stato proprio un cambiamento risolutivo (Aphex Twin premiato ad Ars Electronica Linz nel 1999 è stato secondo me uno dei momenti chiave, premiato nella categoria che in quell’occasione cambiò nome: da Computer Music a Digital Music). Siamo entrati nella fase di maturità della musica elettronica.
A fronte di questa evoluzione, ho sentito il bisogno di sviluppare una riflessione su ciò che era avvenuto prima, anche analizzando alcuni brani importanti a partire dalle partiture informatiche. Il problema del reperimento delle fonti è il secondo punto importante sviluppato nel libro. Il terzo punto è il lavoro comparativo sui due centri considerati: il CSC e l’IRCAM di Parigi. L’analisi di 3 brani dell’uno e 3 dell’altro mi ha portato a stabilire alcune analogie e differenze importanti legate alla formazione dei compositori considerati, i software che hanno usato, alle partiture che hanno prodotto, all’approccio alla programmazione e all’assenza o presenza degli assistenti musicali.
Come vedresti l’idea di una nuova edizione aggiornata?
Il libro ha 10 anni e, come dicevo, siamo entrati in un’era vorticosa ricca di stimoli, tendenze e contaminazioni. Vedrei due possibilità su cui dovrei meditare, e ti ringrazio per avermi lanciato questa sfida che un po’ mi impaurisce. La prima è un’edizione aggiornata e in questo caso dovrei aggiornare la bibliografia, perché in questi ultimi anni sono stati pubblicati nuovi importanti studi e analisi sulla musica elettroacustica e la computer music. Questo dimostra un grande interesse degli storici, della musicologia e dell’analisi. Sono state ritrovate fonti che si pensava introvabili, sono nati convegni, volumi, siti e blog anche divulgativi.
La seconda possibilità è ampliare la riflessione appunto al post-Duemila, cercando un nuovo filo rosso (nel mio libro era stato il programma MUSIC) tra rotture e continuità, innovazioni e ritorni al passato, nuovi trend e misture interdisciplinari e di genere, tra il passato e digital audio effects, sound art, sound design, interactive audio, intelligenza artificiale, DIY, Circuit bending, big data art. La domanda era difficile. Non ho una risposta definitiva come vedi!
Che cosa ti ha colpito e ti continua a colpire di Teresa Rampazzi?
Non so da dove iniziare, e il fatto che mi occupi di approfondire lo studio della sua opera da così tanto tempo è la dimostrazione dell’immensità dell’eredità che ci ha lasciato. Da subito mi ha colpito il fatto che è stata una delle prime musiciste di musica elettronica in un mondo, almeno a quei tempi, tipicamente maschile. Ebbe l’idea di fondare, assieme a Ennio Chiggio, il gruppo N.P.S. – Nuove Proposte Sonore nel 1965, all’epoca della seconda generazione degli studi di musica elettronica, quella degli studi privati accanto a Pietro Grossi suo grande amico, e ad Enore Zaffiri. Purtroppo sia Chiggio che Zaffiri ci hanno recentemente lasciato a breve distanza l’uno dall’altro.
Ma è anche la personalità di Teresa Rampazzi a colpire: era estroversa, creativa, con slanci verso le novità e l’indipendenza. Era sempre attenta alle novità musicali, artistiche, architettoniche, tecnologiche, nel design e nell’arredamento. Era proiettata verso il futuro. Aveva educato i figli con principi liberali ed egualitari, attenta alla parità uomo-donna, in un’epoca in cui ancora si parlava poco di questi temi. Ma sono incredibili anche la sua attività di pianista d’avanguardia precedente all’NPS, la sua attività teorica, e la musica composta al computer dopo il termine della fase analogica dell’N.P.S. E non dobbiamo dimenticare il suo impegno per la didattica che la portò a fondare uno dei primi corsi di musica elettronica in conservatorio. Teresa Rampazzi capì profondamente le potenzialità della prima musica elettronica, una sperimentazione che ha permesso di rivoluzionare la composizione, la produzione e l’ascolto della musica.
Ti sei anche occupata, attraverso una recente ricerca internazionale, del ‘Sound Design’ e della figura professionale di ‘sound designer’. Come è nata l’idea della ricerca e che cosa se ne può concludere?
(Foto di Michele Giotto – sullo sfondo una partitura del gruppo Arke Sinth, attivo negli anni 1972-73, formato da Giovanni De Poli, Marco e Michele Sambin, Alvise Vidolin) La ricerca è iniziata nei primi mesi del 2018 in collaborazione con il Labex CAP (Création, Arts et Patrimoines) di Parigi e l’Ircam di Parigi (lo spazio per la ricerca scientifica e la produzione musicale fondato da Pierre Boulez negli anni Settanta). In tanti oggi si definiscono sound designer, al punto che è diventato difficile comprendere che cosa significhi. La figura del sound designer è nata da qualche decennio, ma è una professione considerata ancora emergente. Il sound designer è qualcuno che si occupa di ‘disegnare il suono’, e lo può fare in vari ambiti. Ad esempio nel cinema, come Walter Murch e il suono di ‘Apocalypse Now’ o ‘il Padrino’; o la spada laser di Ben Burtt per Star Wars. Ci sono i sound designer che lavorano nel teatro, nei musei, nel campo medicale, nell’industria automobilistica, nel vasto mondo della pubblicità e dell’audio branding.
Il progetto ha avuto lo scopo di gettare luce in questa varietà con un focus sull’Europa. Abbiamo intervistato alcuni sound designer e abbiamo analizzato i risultati di 108 partecipanti ad un questionario online.
Tra i risultati è emerso che, oltre ad essere una professione che richiede competenze e abilità interdisciplinari, è un mestiere che si impara sul campo. Ma negli ultimi anni stanno nascendo sempre più scuole, corsi e master dedicati specificamente a questo mestiere. È una professione multi-tasking, nel senso che i sound designer seguono più progetti contemporaneamente, dalla durata di pochi giorni (es. nel sound branding), a tipicamente 3-6 mesi (soprattutto nel cinema e nel teatro). In altri campi del sound design i progetti possono durare anche fino a un anno o più, nell’industria, nell’arte, nell’architettura, nella museografia. Il numero di donne è ancora basso ma in crescita, e pure il numero di giovani che intraprendono questa professione è in costante aumento. Abbiamo esplorato anche il tipico workflow, gli strumenti hardware e software, e molto altro. I risultati preliminari sono stati presentati in convegni e articoli. I risultati definitivi sono l’oggetto di alcuni saggi in corso di stampa nel 2021.
A cosa stai lavorando ultimamente?
Sto lavorando nel comitato di redazione della rivista ‘Musica/Tecnologia’ (il prossimo imminente numero conterrà articoli sul soundscape e la sound art). E proprio in questo momento sto terminando un saggio sull’utilizzo della workstation 4i nel ‘Prometeo’ di Luigi Nono nelle versioni del 1984 e 1985. La ricerca mi ha portato a scovare un’importante fonte inedita. Il diario manoscritto di Alvise Vidolin, con appunti eb> stampate di dati informatici nel periodo di preparazione dell’opera! Una fonte preziosissima.
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