(Sony/Columbia 2020)
Springsteen è una di quelle poche certezze che ti rassicurano. Anche questa volta, che siamo più o meno depressi e soprattutto preoccupati per la pandemia lui è venuto a consolarci con le sue canzoni.
In questo consiste il suo essere Boss, non tanto perché la E Street Band glielo attribuì nei momenti prima dei concerti degli anni ’70 quando per stemperare la tensione giocavano a Monopoli e lui vinceva sempre, ma perché ha assunto una meritata posizione leaderistica nel panorama del rock mondiale, grazie soprattutto alla capacità di capire qual è il momento giusto per essere presente nelle nostre vite, esattamente come fece quando pubblicò “The rising” per sollevare il morale dei suoi concittadini dopo l’attacco alle torre gemelle o quando sfidò la polizia Usa e scrisse “America skin (41 shots)” ispirata all’omicidio di Amadou Daillo, perpetrato dalle forze dell’ordine.
“Letter to you” è il suo ventesimo disco, si tratta di un dignitoso lavoro per un cantautore rock di 71 anni che ha fatto la storia del rock. Questo disco è stato registrato durante il lockdown con la E Street Band, che dopo otto anni è tornata in studio con il rocker di Freehold.
Questo lavoro, se si differenzia notevolmente dal precedente “Western stars”, dato che siamo lontanissimi dagli echi del pop orchestrale californiano degli anni ’60, si assesta su un pop-rock più che dignitoso. Dignitoso soprattutto perché i brani che eccitano maggiormente gli springsteeniani di ferro sono quelli che aveva lasciato nel cassetto quasi cinquant’anni fa e che per fortuna ha ripreso. Si tratta di Janey needs a shooter, If I was a priest e Songs for orphans, tre brani molto verbosi, in cui sono stati utilizzati gli arrangiamenti che erano dominanti nei suoi dischi degli anni ’70. La prima, introdotta da un hammond, procede come ballata tirata, con una coda rock-soul ben enfatizzata, tratta i temi del peccato e del senso di colpa. La seconda ha arrangiamenti più in linea con i suoi ultimi lavori, ma nel finale c’è un ottimo assolo di chitarra, è un testo che non avrebbe affatto sfigurato in “Greetings from Asbury Park, NJ”, per la presenza di un quantità eccessiva di personaggi abbastanza bizzarri, con ipotesi assurde, da far sembrare il testo quasi un flusso di coscienza. La terza di questo lotto, avvincente tanto nel testo perché parla di lottare per trovare il proprio posto nel mondo, quanto negli arrangiamenti, caratterizzati da un rock piuttosto tirato, ma altrettanto morbido con un bell’intreccio tra chitarre, armonica e tastiere.
In questo disco Springsteen, come sempre, non esita a manifestare le sue fragilità e le sue insicurezze, così saluta i suoi amici che non ci sono più, sia nel pop-rock enfatico della title-track, scritta in seguito alla morte di George Theiss, leader dei Castiles, in questo modo lui è rimasto l’unico sopravvissuto del gruppo in cui ha militato tra il 1965 e il 1968, sia inI’ll see you in my dreams dedicata agli amici che non ci sono più (Clarence Clemons, Danni Federici).
Tra i pezzi più rock vanno segnalati Burnin’ train, particolarmente carica, quasi una corsa epica, e incentrata sulla spiritualità, in altre parole mette insieme il blues e il gospel, e Rainmaker, un combat rock incisivo di un settantenne, che va in profondità sia per il sound, vicino a quello di “The rising” e “Wrecking ball”, sia per il testo che Bruce ha iniziato a scrivere quando c’era Bush alla casa Bianca e che ha terminato di scrivere con Trump, incentrato su un oscuro personaggio, un demagogo.
Grazie ancora Bruce per esserci!
Voto: 7,5
Vittorio Lannutti