(Pyroclastic Records, 2020)
Ispirato all’autobiografia di Thomas Merton ‘The Seven Storey Mountain’, l’omonimo ‘song cycle’ del trombettista e compositore, Nate Wooley, pubblicato dalla Pyroclastic Records, giunge qui al suo sesto episodio. Il disco ‘Seven Storey Mountain VI’ si compone di un’unica traccia di 45 minuti che alterna – in maniera straniante, disorientante, a tratti metodica e a tratti caotica, fantasiosa, libera e, in ogni caso, sempre affascinante – episodi di apertura estatica, nei quali Wooley e il suo ensemble sanno dischiudere immaginificamente una radura sonora capace di rapire l’ascoltatore e trasportarlo in una dimensione di grande intimità e raccoglimento, ad episodi di condensazione magmatica, nei quali il vortice sonoro trascina l’ascoltatore in un’esperienza di vertiginoso spiazzamento e turbamento. La ‘line-up’ di ‘Seven Storey Mountain VI’ prevede, oltre a Wooley alla tromba, Samara Lubelski e C. Spencer Yeh ai violini, Chris Corsano, Ben Hall e Ryan Sawyer alla batteria, Julien Desprez e Ava Mendoza alle chitarre elettriche, Susan Alcorn alla pedal steel guitar, Isabelle O’Connell ed Emily Manzo alle tastiere, e infine Yoon Sun Choi, Mellissa Hughes e Megan Schubert alle voci. ‘Seven Storey Mountain VI’ si apre come un requiem per un mondo malato, con un andamento musicale lento, trascinato, dolente e doloroso; si apre poi, attraverso suoni, rumori e frammenti di ogni tipo, all’espressione dissonante e lacerante del dolore come cifra della condizione umana; infine, però, non si chiude unicamente su una tale dimensione di sofferenza, quasi che essa fosse un che di ‘esistenziale’ o ‘ontologico’ da accettare come tale nella sua presunta immutabilità e magari pure feticizzare approdando a uno pseudo-nichilismo, ma si dispiega grandiosamente in uno scenario musicale che, pur nella asemanticità di quel quasi-linguaggio che la musica ‘è’, sembra voler affermare la possibilità – per quanto caduca, fragile e residuale – del superamento dell’oppressione, e sembra voler testimoniare precisamente il potere della musica di far questo, cioè di prefigurare e annunciare metaforicamente, con la sua incomprensibile comprensibilità, la non-impossibilità dell’utopia. ‘Seven Storey Mountain VI’ si presta a una tale interpretazione per via della sua specifica forma e qualità musicale, per via del suo contenuto ‘impegnato’ ben testimoniato dalle parole di Wooley riguardo alla donazione di una parte delle royalties alla National Coalition Against Domestic Violence e riguardo al fatto che una grande fonte di ispirazione sia stata la canzone ‘Reclaim the Night’ di Peggy Seeger (della quale Wooley usa i primi versi come una sorta di mantra in ‘Seven Storey Mountain VI’, nella speranza che tali parole vengano portate con sé da ogni ascoltatore nella propria vita quotidiana, come si legge nelle ‘liner notes’), e infine per via delle bellissime parole di Wooley – che vale davvero la pena di riportare qui – a proposito del valore inestimabile del contributo apportato da ogni musicista ai fine del dare vita alla composizione nell’esecuzione collettiva, nel processo del fare musica insieme: ‘The best part of Seven Storey Mountain is the ‘We’. Every person who has performed a portion of the cycle has given something to the piece, and some part of the piece has remained with them. Each SSM is written so that everyone can give a little more of themselves than they feel comfortable giving without causing too much strain. Seven Storey Mountain is a chance for the performers to turn themselves inside out in a way that feels safe. Together! Everyone in every ensemble […] have given something deep and personal. This is especially true of the huge force that came together to perform and record the music on this disc. I call them ‘the family’ with no sense of irony. These are my people and I’m happy to have them in my life’. ‘Seven Storey Mountain VI’ è un’opera sicuramente complessa, difficile e a tratti anche disturbante, e per questo motivo forse non adatta a tutte le orecchie, per così dire. Tuttavia, per chi abbia la capacità e la volontà di sprofondare nell’universo di suoni, rumori, ordine, caos, perdizione e salvezza di una musica come quella di Wooley e del suo ensemble, si tratta indubbiamente di un’esperienza estetica che ripaga ampiamente tutta la fatica compiuta per disconnettersi per 45 minuti dal proprio macrocosmo abituale e immergersi con il corpo e lo spirito nel microcosmo di un labirinto sonoro di questo tipo.
Voto: 9
Stefano Marino