(Everlasting Records, 2019)
Emilio Salgari scrisse le sue storie di isole selvagge e tesori perduti senza allontanarsi mai da Torino, nutrendo la fantasia con i libri e le mappe della biblioteca civica centrale. Sergio Leone era romano de Roma, il massimo del far west che avesse bazzicato prima della “trilogia del dollaro” erano i film di John Ford e i fumetti di Tex Willer. In entrambi i casi, la distanza culturale prima che fisica o temporale ha consentito a questi due autori di reinventare i rispettivi generi di riferimento, di rifarli (paradossalmente) più veri del vero a suon di cliché di terza mano.
Con l’exotica è andata più o meno così. Nel 1952 Les Baxter, pionieristico compositore statunitense, pubblicò l’album ‘Ritual of the Savage (Le Sacre du Voyage)’, che accostava arrangiamenti orchestrali d’ispirazione classica, strumenti africani, indiani, caraibici e ritmi tribali. Nacque così il genere “exotica”, che negli anni successivi ebbe un’esplosione alla quale contribuirono ancora Baxter, con dischi come ‘Tamboo!’ (1956), ‘Caribbean Moonlight’ (1956), ‘Ports of Pleasure’ (1957) e ‘The Sacred Idol’ (1960), e alcuni suoi discepoli, tra cui il newyorkese Martin Denny (‘Exotica’, del ’57, LP da cui il genere prese il nome, che conteneva il singolo ‘Quiet Village’, una cover di Baxter).
Il sound di questi album era un “surrogato tropicale”, scimmiottava la musica oceanica come la intendevano i bianchi. Oggi si griderebbe all’appropriazione culturale, ma la verità è che il razzismo qui c’entra poco. Al contrario, non riesco ad immaginare una dichiarazione d’amore più sincera per una tradizione musicale.
Dopo i successi dei primi anni ’60, la popolarità dell’exotica si affievolì rapidamente, i dischi scomparvero dagli scaffali dei negozi e riempirono i cestoni dei robivecchi. Finché, negli anni ’90, non ci fu una rinascita del genere. In questo filone revivalista s’iscrivono gli L’Exotighost, quartetto spagnolo che, sin dal nome, promette un doppio viaggio, nello spazio (culturale) e a ritroso nel tempo. Il loro debut album, ‘La Ola Oculta’, è insomma, per certi aspetti, l’equivalente di ‘Music Has the Right to Children’ dei Boards of Canada, hauntology applicata a un bizzarro intreccio di congas, theremin, ukulele, marimba, vibrafono, legnetti, scacciapensieri, più qualche tocco di chitarra elettrica, batteria, elettronica, quanto basta a togliere la polvere.
Siamo in un lounge bar anni ’60, l’atmosfera è rilassata, nient’affatto kitsch (purtroppo). A sorpresa spunta fuori pure una cover di John Carpenter, il tema di ‘Halloween’ (‘Cha cha Challoween’), un po’ fuori posto ma innocuo, come il resto del disco. ‘La Ola Oculta’ è meno suggestivo di quanto si possa pensare, mancano il mistero, l’esotismo sensuale dei classici del genere, insomma l’innocenza, ma è un ottimo modo per viaggiare, anzi l’unico possibile, visti i tempi grami.
Voto: 6
Marco Loprete