Biagio Putignano, compositore e da oltre vent’anni titolare della cattedra di Composizione presso il Conservatorio “Niccolò Piccinni di Bari, è una delle voci più interessanti del panorama della musica internazionale di matrice italiana. Nella sua ricerca, ormai pluridecennale, ha investigato le possibilità timbriche degli strumenti tradizionale ma, allo stesso tempo, ha lungamente esplorato l’intreccio tra questi ultimi e la dimensione elettronica. La sua produzione, multiforme ed espressione di un linguaggio e di uno stile decisamente personali, poggia sempre su un pensiero musicale chiaro e, anch’esso, in costante movimento.
Maestro Putignano, la Sua produzione è ormai molto ampia e copre diversi decenni. Se dovesse ricostruire, retrospettivamente, il cammino che ha percorso fin qui, quali tappe (formative e professionali) le sembrano più significative e più produttive rispetto a quanto accaduto nella Sua successiva attività?
Certamente la formazione avuta prima come organista, presso il Conservatorio “S. Cecilia” nella classe di Luigi Celeghin, e, successivamente, come compositore presso il Conservatorio “Pollini” di Padova nella classe di Wolfango Dalla Vecchia sono state a loro modo ‘complementari’. Celeghin, che per un breve periodo è stato allievo di Dalla Vecchia, era proteso verso la contemporanea in maniera attiva e concreta: oltre ad avere rapporti diretti con molti autori (Berio, Nono, Donatoni, Ferrari, Gentile, Mortari, Kurtág, e molti altri compositori) era stato dedicatario e primo interprete di molte pagine organistiche. Ciò ha determinato il naturale interesse di tutti noi suoi studenti verso questa letteratura. Dopo aver conseguito i diplomi di pianoforte, organo, musica corale e musica elettronica, con quello di composizione ho perfezionato gli strumenti ‘accademici’ (contrappunto, fuga, orchestrazione), adeguandoli poi alla prassi corrente con gli insegnamenti di Gentilucci, Manzoni, Sciarrino, Donatoni, Grisey, Murail, Vidolin (in Civica a Milano) e Fedele, Benjamin, Stroppa, Lindberg (all’Ircam a Parigi). Nel frattempo, avendo già fondato l’Ensemble “A. Gentilucci” col quale dal 1986 al 1995 ho eseguito tantissime ‘prime’, mi sono ‘arricchito’ sul campo dal contatto costante e personale con importanti autori italiani e stranieri (tra cui Messiaen, Clementi, Stockhausen, Lemaître, Mirigliano, Melchiorre, Gentile), con alcuni dei quali si instaurò anche una duratura amicizia, tutt’ora molto salda.
Queste diverse metodologie di approccio e di lavoro mi hanno permesso progressivamente di maturare una sintesi, tuttavia coniugata all’insegna di due grandi ‘assenti’ nella mia formazione diretta: Xenakis e Nono.
Le prime occasioni per comporre sono maturate proprio con Celeghin, per il quale ho scritto Ariosi di festa per due organi antichi e quattro esecutori, Mobili immagini per due trombe, organo e percussioni, l’oratorio Cattedrali di silenzio per voci e strumenti rinascimentali e altri lavori con formazioni miste. Cattedrali mi ha permesso di fare un notevole salto in avanti, ibridando processi elettronici, procedimenti prerinascimentali e atmosfere spettraliste, tecniche che successivamente ho esteso anche all’orchestra e agli strumenti.
Per non rendere tutti questi ‘input’ irrazionali e slegati, ho cercato nella riflessione filosofica il ‘collante’ per amalgamare le mie piccole intuizioni. Diversi pensatori mi hanno affascinato, ma è stato prima con Edgar Morin, poi con Giovanni Piana, che ho frequentato a lungo, che sono riuscito a immaginarmi una sorta di cosmogonia musicale personale.
Quali sono i compositori “storici” che ritiene siano stati i suoi punti di riferimento? E quali, invece, i compositori che ritiene oggi particolarmente significativi (o con i quali ritiene di avere più “affinità”)?
I Maestri della tradizione verso i quali nutro una ‘devozione’ speciale sono naturalmente quelli della letteratura organistica da me frequentata: Girolamo Frescobaldi (per le innovazioni formali), Johann S. Bach (per il purissimo magistero contrappuntistico), Olivier Messiaen (per la straordinaria qualità dell’invenzione). Invece, dei contemporanei, faccio prima a dire coloro che mi attirano poco: i neo-qualsiasi-cosa, i minimalisti, i post-modernisti e i ‘mescitori di generi’. Non per ‘snobismo’ preconcetto, ma perché mi sfuggono le logiche con cui regolano le relazioni tra tempo e morfologia o come coniugano le proprietà dello spazio frequenziale con le ‘figure’, come fanno coesistere ‘funzioni tonali’ con ‘processi’, come trascurano qualsiasi problematica inerente la percezione, infine come tollerano che gli ‘spazi architettonici’ in cui risuonano le loro musiche siano inerti alle sonorità che producono. Lo stesso se dovessi disegnare un ‘albero di affinità’, commetterei involontariamente qualche dimenticanza: ma trovo congeniali autori che vanno da Messiaen e Xenakis, da Gentilucci a Bussotti, da Guaccero a Dalla Vecchia. Nella mia musica gli opposti poi s’incontrano grazie agli insegnamenti diretti di Sciarrino e Donatoni, ai contatti personali con Boulez e Stockhausen, infine idealmente con Scelsi e Cage.
Credo di poter dire che la Sua ricerca ha al proprio centro il rapporto tra il tempo e la percezione della forma. Si tratta di una questione che ha attraversato tutto il secondo Novecento fino ai giorni nostri e che compositori, anche molto diversi tra loro, come Grisey, Reich, Xenakis o Sciarrino hanno affrontato in modo specifico. Rispetto a tale questione, qual è la Sua posizione
La relazione tra tempo e percezione è centrale. E tra i due termini è il primo, il tempo, appunto, che gioca ruoli di maggior peso e, a seconda di come può essere inteso filosoficamente, esso ha una ricaduta prepotente sull’atto compositivo. Iniziamo immaginando un tempo bergsoniano, ovvero un flusso continuo che non ha un inequivocabile punto di inizio o di fine. Come si chiedeva Nono: ‘dov’è l’inizio, dov’è la fine? – anche in musica?’. Una siffatta visione comporta la realizzazione di musiche in un solo e ampio arco evolutivo, un ‘processo’ nella accezione spettralista del termine. La composizione varia nella sua unità, come nel mio lavoro Desiderium Animae.
Proseguiamo col suo opposto, che è il tempo degli esistenzialisti, fatto dalla sommatoria di istanti slegati e percorribili in ogni direzione: esso scinde una composizione in più parti, ricombinabili secondo criteri micro- e macro-formali più audaci e complessi. Una composizione quindi diventa unita nella sua varietà, come in Cartografie del tempo.
Infine c’è il tempo delle relazioni tra le cose, tra gli eventi, le connessioni tra luoghi reali e virtuali (come lo spazio della pagina), le corrispondenze tra volumi e densità, i nessi tra acusmatica e suoni naturali, come in Cinque commentari. In questo caso la molteplicità non è sufficiente a diventare collante tra unità e varietà, ma c’è bisogno di qualcosa in più, chiamiamola fantasia, oppure invenzione, forse il termine più appropriato, ma al contempo rischioso, è creatività.
Tutto ciò si compenetra con altre proprietà del tempo, da quello liscio versus quello striato di bouleziana memoria, a quello percepito nella sua scorrevolezza lineare che non sempre è quella realmente derivante dalla progettazione compositiva.
Sarà la percezione ad unificare il tempo, e a reificarne gli ‘oggetti sonori’ attraverso quelle strategie reiterative e meta- e anamorfiche esperite dal compositore stesso. Per far questo, il compositore fa ricorso a tutte quelle strategie desunte certamente dalle tecniche compositive tradizionali, ma corrobora il suo atto creativo mutuando da altri ambiti (artistici, scientifici, letterari, cinematografici ecc.) quelle strategie che meglio gli consentono di controllare i fenomeni percettivi dell’ascoltatore.
A quest’ultimo si richiede ‘partecipazione attiva’, ovvero una ricezione cosciente (Leibniz la chiamava appercezione) al fine di mettere, nello specifico, in relazione gli eventi sonori per dar loro quindi una forma, che non è pre-formata, ma prende corpo in maniera singolare in ogni ascoltatore (come ci ha insegnato Eco), in base alle esperienze d’ascolto pregresse. Diventa forma formante (come direbbe Pareyson) e in quanto tale, potrebbe essere ‘cangiante’ in maniera costante e sorprendente, dando adito a molteplici chiavi di lettura di uno stesso fenomeno. Paradossalmente anche quando il tempo è estromesso, come avviene in certe pagine del nostro autore che ci appassiona tanto, caro Giacomo, ovvero John Cage, esso rientra tramite l’ascolto nel momento della ricezione sonora, assumendo complesse metonimie.
Nel suo approccio alla scrittura della musica, un ruolo importante lo gioca l’idea per la quale l’invenzione e la creazione abbiano una strettissima e profonda correlazione con le forme del pensiero. Ci può dire qualcosa su questo aspetto della sua poetica?
I recenti studi di Edelman e Tononi suggeriscono che gli artisti, alla base del loro atto creativo, si affidano ad ‘immagini mentali’ complesse e composte, impossibili da descrivere, frutto del cosiddetto ‘darwinismo neurale’. Esso è la complessa rete di conoscenze, di esperienze, di abilità che si acquisiscono durante l’intera vita. Non solo: il modo di pensare è condizionato dalla lingua che si parla, la stessa lingua che in passato, secondo i recenti studi della teoria “metrico-autosegmentale” sorte nell’ambito delle scienze cognitive, ha addirittura condizionato la veste ritmica della musica barocca italiana, differenziandola dalla tedesca e dalla francese. Va da sé allora che ogni compositore darà voce a ciò che è, a come vive, a quali stimoli riceve, siano essi di natura sociologica, antropologica o semplicemente tecnologica. Voglio dire: vivere avendo la certezza di poter usufruire della corrente elettrica, di poter contare sulle telecomunicazioni, e sull’‘immagazzinamento del tempo’ (ovvero le ‘registrazioni’ audio e video) modella il pensiero di ognuno di noi in un certo modo. Riflettiamo ad esempio quanto la percezione della distanza sia stata sovvertita dalla velocità. Ecco: anche il compositore di oggi, che vive radicato in un ambiente del genere, per quanto liquido possa essere, non potrà altro che diventare esso stesso ‘voce’ del suo tempo, e restituire attraverso la musica che scrive quello che possiamo chiamare il sound a lui contemporaneo. Tale restituzione avviene proprio per mezzo delle teknai musicali esperite, che sono non-retrogradabili, non-intercambiabili con quelle storiche per definizione. Esse diventano le coordinate di una forma di pensiero ancorato all’oggi.
Per cui, paradossalmente, ascoltando Mozart, Beethoven, Verdi, noi ascoltiamo le categorie mentali di quelle epoche per il tramite di quell’organizzazione sonora, con i materiali frutto del loro pensiero e nelle forme che immaginavano. Lo aveva già detto Edgar Varèse: ogni forma richiede un materiale, e ogni materiale si può rivestire di una forma, e (aggiungeva Nono) potrà risuonare nelle opportune architetture.
Le forme del pensiero di cui ci ha parlato hanno anche una certa relazione con la dimensione conoscitiva? Se sì, in che termini?
È inevitabile che l’ascolto musicale si tramuti in ascolto del pensiero; e quando questo ascolto è assimilato consapevolmente, esso si trasforma in ‘conoscenza’, ovvero si sublima in ‘sofìa’, in vera e propria sapienza nel momento in cui raggiunge quelle vette di mistica simbiosi tra materiale e spirituale, tra uomo e natura, tra suono e silenzio; non riesco a descrivere verbalmente la sapienza di Bach, di Mozart, di Beethoven, di Verdi, di Messiaen o di Stockhausen. Le parole non solo non bastano, ma qui non servono. Ricorderai il monito di Berio, che insisteva sul fatto che la musica non si può descrivere a parole. Bene, se la musica non si potrà descrivere, tanto meno il pensiero che essa ci restituisce; e se è anche fenomeno fisico oltre che spirituale, fenomeno che ci avvolge e ci attraversa (e forse ci cambia anche un po’) fino a rapirci totalmente, come possiamo noi avere una pur minima ‘contezza’ di tali fenomeni e stabilire a parole fin dove o fino a quando? Eppure è vero che la musica ha una comprovata azione sul nostro sistema percettivo, conoscitivo, comportamentale. E le testimonianze di Oliver Sacks in Musicofilia ci restituiscono non solo tale complessità del fenomeno, ma la totalità, la grandezza e la profondità dello stesso, quasi a spingerci a sostenere che tale conoscenza acquisita tramite la musica sembra venire in soccorso anche in quelle difficoltà.
Prima di salutarci, ci vuole dire qualcosa sull’altra metà del Suo cielo, vale a dire l’insegnamento? E in che modo quest’attività influisce sulla Sua pratica compositiva?
Punto spinoso, questo: è possibile trasferire questi ‘saperi’? Cioè partire dalla tradizione fino a spingersi alla contemporaneità, col serio rischio dell’accademismo? Di conseguenza, cosa dovrebbe insegnare un compositore, formule, soluzioni, oppure fare tabula rasa e spingere verso il terreno ignoto della sperimentazione? E quest’ultima coincide sempre con la creatività? E di quali strumenti, poi, si deve privilegiare un insegnante: la manualistica o la pratica sul campo, la formazione umanistica e sociale o quella tecnicistica? Non dimentichiamo che le due riforme italiane dei conservatori, quella del 1930 e la successiva del 1999 sono state approntate partendo proprio da questa dicotomia. E se aggiungiamo che a tutt’oggi, l’ultima riforma non ha prodotto ancora (dopo vent’anni) tutti quei risultati tanto sperati, il quadro che troviamo è sconfortante. Gli studi di settore sulla ‘creatività tout-court’ in Italia hanno prodotto sporadici contributi: tra i più recenti, il Libro bianco della creatività, curato da Santagata e Creatività musicale, a cura di Fele, Russo e Cifariello Ciardi. Studi che iniziano a fornire supporti alla pratica dell’insegnamento della composizione, che però si scontrano ancora con la farraginosa burocratizzazione dei corsi ministeriali, che da una parte hanno tentato di parcellizzare lo studio musicale per ampliarne le relative conoscenze, ma dall’altra hanno lasciato indolentemente strutture, metodi, valutazioni e a volte programmi ancorati al vecchio ordinamento. La mia attività di docente allora deve muoversi tra questi labirinti, non dimenticando un’ulteriore variabile: il contesto culturale territoriale di provenienza dello studente, che per quanto musicalmente composito di tradizione misto a quello di consumo, di fatto è meno addentrato nella produzione musicale colta. Il mio approccio didattico, allora, tenendo conto di tutte queste variabili, è di volta in volta costruito sullo studente, del quale cerco principalmente di esserne il ‘consulente’, non il docente prescrittore o correttore di esercizi. Cerco di conoscere a fondo la preparazione scolastica di base, su cui suggerisco ampliamenti culturali che non partono direttamente dall’ascolto del repertorio moderno e contemporaneo, ma dall’invito alla lettura, alla frequentazione di mostre d’arte, all’approccio diretto a indirizzi di pensiero nelle varie arti, poesia, architettura e cinema. Spesso mi piace avviare paragoni tra le tecniche narratologiche cinematografiche e musicali, per immaginarne possibili chiavi di lettura e reimpiego come tecniche compositive. E quando diventa necessario affrontare gli studi specifici dell’armonia, del contrappunto, della fuga, per ottemperare agli obblighi ‘accademici’, lo faccio sempre partendo da dati reali, da prove compositive prodotte direttamente dallo studente. Solo in quel caso, insisto sulla ricostruzione storica del perché si è giunti a certe soluzioni, e come queste abbiamo potuto influenzare il pensiero musicale successivo. Ecco, insomma è sempre un lavoro sullo studente: che però ripaga, come mi ha insegnato Gérard Grisey. Egli sosteneva che il rapporto tra docente e discente è sempre bidirezionale, nel senso che ogni giovane studente, pieno d’idee, non ha l’esperienza per poterle attuare appieno e alla perfezione, e il docente invece si arricchisce di quelle idee, che integra, manipola e amplifica, grazie proprio alla esperienza acquisita. Ecco come questo circolo virtuoso lega indissolubilmente il passaggio dei saperi, lo attualizza, rendendolo al dunque necessario per mantenere in vita questa nobilissima tradizione della composizione musicale colta.
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