(Dodicilune 2021)
“Un pretestuoso accostamento alle lontane origini africane del Jazz”. Così definiscono il loro progetto Giancarlo Schiaffini e Sergio Armaroli. E “falsamente etnico” è, ancora parole loro, l’organico strumentale – il trombone di Schiaffini e l’armamentario di Armaroli (balafon cromatico, water drum, calebasse, talking drum, mbira, shakers, bull-roarer, percussion). Il blues, il tema scelto: brani di Monk – tra quelli più legati alla struttura, alle sonorità e alla tradizione blues come Straight No Chaser, Blue Monk, Misterioso, Something in Blue ecc. – sono smontati e rimontati in chiave africana, una chiave africana tutta creativamente e autenticamente fake (o meglio: senza alcune pretesi di cieca fedeltà a un presunto originale). Le parole di Neri Pollastri nel libretto che accompagna l’album introducono al meglio l’ascolto di questo splendido mash-up che performativamente illustra l’ibridità costitutiva del jazz, la sua capacità di mescolare e mescolarsi, la sua tendenza a negare continuamente se stesso per ricrearsi e ricrearci all’ascolto, la sua straordinaria attitudine a ripetere l’uguale in modo sempre diverso, rispettando la tradizione (anzi: le tradizioni) attraverso una (tras)formazione capace di renderla/e viva/e. Se poi a farlo sono Maestri dell’improvvisazione come quelli qui all’opera, in grado di muoversi con virtù e gran classe tra il jazz, l’Africa e la musica eurocolta, non può che uscirne un capolavoro. Monk ne è sicuramente felice. E anche noi.
Voto: 9