Cercando di riprendere in mano testi che trattano di filosofia, per rispolverare in qualche modo i miei studi universitari, mi è capitato tra le mani il volume ‘Storia dell’Estetica occidentale.Da Omero alle Neuroscienze’ curata dal professor Fabrizio Desideri e dalla professoressa Chiara Cantelli. Tra i vari argomenti trattati mi ha particolarmente colpito il riferimento ad uno sviluppo oderno dell’estetica, il campo della neuroestetica musicale e le ricerche della prof.ssa Elvira Brattico e del Center For Music In The Brain di Aartus, in Danimarca.
Ho subito contattato la docente per chiederle se era disponibile ad un’intervista per Kathodik. La professoressa si è mostrata interessata e disponibile a rispondere alle mie domande, che ho subito preparato e le ho inviato. A voi la lettura dell’interessantissima conversazione tra arte, pedagogia, e scienza.
Per cominciare le chiederei una sua breve presentazione: come è arrivata a fare ricerca al Center for Music in the Brain?
Mi chiamo Elvira Brattico e sono docente di Neuroscienze, Musica ed Estetica in Discipline Neuroscientifiche presso l’università di Aarthus in Danimarca; lavoro come dirigente di un centro di eccellenza, che si chiama Center for Music in The Brain, per la Danish National Research Foundation, agenzia di finanziamento di ricerca danese. Il centro è specializzato sugli studi che utilizzano tecniche di neuroimmagine per comprendere come percepiamo i suoni musicali, come cioè capiamo, apprezziamo la musica in generale e come il cervello dei musicisti cambia in funzione della pratica e dello studio di uno strumento. Questo è il mio ruolo in Danimarca, da due anni sono in Italia, perché sono tornata grazie ad una chiamata diretta e lavoro come docente di Psicologia Generale, in regime di tempo definito, settore disciplinare M-PS01, nella regione Puglia presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. Continuo a fare attivamente ricerca nel settore della psicologia della musica, e delle neuroscienze della musica in particolare. Ho un background umanistico principalmente – laurea in filosofia – , ho un diploma di Conservatorio in pianoforte, e ho preso un dottorato in psicologia con specializzazione in neuroscienze cognitive e metodi di ricerca neuroscientifici all’università di Helsinki in Finlandia, nel 2007. Ho lavorato, sempre nel settore delle neuroscienze cognitive, delle neuroimmagini, con una particolare attenzione alla musica e ai suoni in generale. Mi interessa anche studiare i meccanismi neurali che sottostanno alla percezione dei fonemi linguistici.
Come nasce il Center for Music in the Brain?
Il Center for Music in the Brain è nato da un forte desiderio dell’attuale direttore, che è il prof Peter Vuust, danese, compositore jazz, che ultraquarantenne ha deciso di cominciare a studiare e perfezionarsi, perché lui aveva già scritto alcuni libri, nell’ambito delle neuroscienze della musica, e per fare questo ha preso il dottorato in scienze mediche con una tesi sul ritmo. Nel 2012/2013 mi ha invitato a rifare la domanda di finanziamento, che avevo fatto nel 2010 quando ci eravamo già conosciuti per una collaborazione di ricerca, per creare questo centro di ricerca finanziato dalla Danish National Research Foundation, agenzia governativa che corrisponde grossomodo al CNR Italiano. L’agenzia finanzia la creazione di centri di eccellenza in questo modo: per 6 anni + 4, finanziano persone che si spostano per dedicarsi esclusivamente alla ricerca con mansioni minime di docenza. Il centro è nato attorno all’idea che un principio fondamentale del cervello è il principio di codifica predittiva proposto dallo scienziato inglese Karl Friston. In pratica, il cervello funziona come una macchina statistica che non fa altro che prendere le informazioni in ingresso e interpretarle sulla base di priori, informazioni che sono già state immagazzinate e già organizzate. Questi priori, questi modelli predittivi vanno a informare tutto ciò che arriva nei nostri organi di senso e fanno anticipare anche ulteriori stimoli; quindi, la percezione in realtà è un’anticipazione di quello che verrà e questo è un principio del funzionamento celebrale che si puó rappresentare in modo matematico attraverso il teorema di Bayes. Ciò che è interessante è che si può dimostrare questa teoria matematica con dati empirici utilizzando la musica. Quindi, la musica è uno stimolo che si sviluppa nel tempo, e la nostra capacità di anticipare e di prevedere quello che verrà dopo, ad esempio, di aspettarci una tonica piuttosto che un accordo dominante o di una cadenza sospesa alla fine di un brano musicale, basata sulla nostra conoscenza passata della musica (tonale occidentale), ci permette anche di apprezzare la musica stessa e di provare emozioni. Perché uno dei meccanismi si pensa produca emozioni in musica è proprio legato alla formazione di aspettative, alla nostra capacitá di aspettarci un suono particolare, e al fatto che questa aspettativa venga risolta oppure venga interrotta o violata. Questo è uno dei meccanismi che produce una risposta emotiva musicale, e per di più nella musica c’è l’aspetto dell’ascolto della musica, della produzione della musica, è un processo di apprendimento continuo; quindi questo principio di codifica predittiva implica che ci sia un update, un’aggiornamento continuo dei priori, ovvero dei modelli che servono per minimizzare l’errore che il sistema registra quando lo stimolo è troppo diverso da ciò che ci si aspetta. Di conseguenza, un’attivitá musicale si traduce in processo continuo di minimizzazione dell’errore che implica poi un apprendimento nel corso del tempo. Più si conosce, più si ha un priore preciso, ovvero un’aspettativa precisa, e più si è in grado di minimizzare l’errore; cosicché quando arriva un errore inaspettato si impara, perché il sistema introietta questo errore e va ad aggiornare il priore preesistente in modo che successivamente l’errore si annulli progressivamente. Questo tipo di meccanismo si può verificare sia nell’ascolto che nell’esecuzione, perché la musica oltre ad essere ascolto è anche azione, produzione: anche quando suona, il pianista suona le note e anticipa il movimento che sta per compiere, ha già un’idea di quello che deve suonare successivamente e se poi il risultato non corrisponde all’aspettativa c’è un meccanismo di aggiustamento dell’azione che poi porta a produrre quella giusta, il suono giusto appunto, permettendo successivamente di minimizzare questo errore.
Questo è brevemente ció che si può studiare con la musica nel contesto di questa teoria generale del funzionamento del cervello ovvero della codifica predittiva. Per chiudere il cerchio della domanda precedente, Peter Vuust è la persona che ha lavorato molto sull’applicazione e sulla possibilità di verificare la teoria della codifica predittiva con la musica, al fine di deteminare se si può spiegare tutto ciò che avviene in musica con questa teoria generale del funzionamento del cervello. Peter Vuust, utilizzando delle metodologie su cui io ero specializzata grazie ai miei studi a Helsinki, ha proposto questa versione applicata alla musica, e insieme abbiamo fatto dei lavori sperimentali per dimostrarne poi la veridicità ed andare a testare la teoria. Da da qui è nata la collaborazione e da qui Peter Vuust mi ha invitata a partecipare alla domanda di finanziamento che poi ha portato alla fondazione del Center for Music in the Brain. Nel momento in cui abbiamo vinto il finanziamento, è stato aperto questo concorso per la docenza sulla ricerca su queste tematiche e, avendolo vinto mi sono trasferita in Danimarca. Con il professor Vuust abbiamo appena concluso la prima fase del centro che è durata 6 anni, e poi un anno fa abbiamo fatto domanda per avere una seconda fase di altri 4 anni e l’abbiamo vinta. Quindi il centro ha iniziato nel 2015 e potremo continuare fino al 2025. Dieci anni. E’ una opportunità fantastica perché abbiamo finanziamenti per pagare i costi di acquisizione dei dati con questi macchinari come la risonanza magnetica e l’elettroncefalografia che sono molto costosi nel mantenimento, e tutte le altre relative alle sperimentazioni e alle pubblicazioni, nonché tutto il personale, come assistenti alla ricerca, tecnici, ingegneri, ricercatori, dottorandi, post-dottorandi e anche professori associati che possano lavorare solo sulla ricerca senza obblighi di docenza.
Quali competenze sono richieste per lavorare nel centro? Di seguito le chiedo se ritiene importante l’approccio multidisciplinare.
Bellissime domande tutte e due, effettivamente sono collegatissime perché lo stesso nome del centro unisce un’anima più culturale che è la musica, quindi un dominio che di solito è all’interno di qualcosa umanistico, in campi quali musicologia o conservatorio, quindi nell’ambito dell’arte e poi il cervello che è un ambito scientifico e medico. Noi appunto siamo collocati nella facoltà di medicina dell’università di Aarhus e siamo affiliati anche con il conservatorio di Aarhus/Aalborg. Dunque, come collocazione istituzionale siamo proprio basati nella medicina, però abbiamo anche un “piede” nel conservatorio. L’idea del centro è interdisciplinare e questo si riflette anche nelle competenze delle persone: i tre dirigenti siamo io, Peter Vuust e Morten Kringelbach; già se vede i nostri curricula si accorge che sono estremamente particolari: c’è Morten Kringelbach che è laureato in informatica ma ha fatto anche l’accademia d’arte; io ho un diploma al Conservatorio, una laurea in filosofia, e poi dottorato in Psicologia con specializzazione in neuroscienze cognitive e metodologia della ricerca neuroscientifica; Peter Vuust è laureato in matematica, francese, composizione jazz e poi ha fatto il dottorato in Neuroscienze. Un paio di anni fa è stato intervistato dalla rivista Nature, la maggiore rivista mondiale di scienze biologiche, come esempio di come si poteva combinare due discipline e due carriere lavorative, perché lui oltre ad essere dirigente di ricerca e neuroscienziato è ancora musicista. Infatti, l’invidio tanto: quello non riesco a farlo, sono, diciamo, soltanto dirigente, lavoro come neuroscienziata e docente anche a Bari. Sono anche mamma di tre figli, il che ovviamente é come un altro lavoro che non lascia spazio alla carriera da concertista.
Se mi permette la battuta, professoressa, lei dirige i suoi tre figli!
Si, assolutamente, dirigo i miei tre figli. Peter Vuust è bravissimo perché riesce a continuare queste due carriere, ha inciso anche dei cd, produce anche musica jazz, fa concerti. Conosco un altro collega svedese che lavorava prima al Karolinska Institutet di Stoccolma e adesso è al Max Plank di Francoforte, Frederic Ullen, un altro caso abbastanza raro di neuroscienziato che é anche pianista classico concertista – è un grande interprete di Chopin. Si fa quel che si può, si cerca di combinare tante anime in una sola persona: c’è chi ci riesce di più e chi magari si concentra su una cosa che su un’altra. Comunque, la dirigenza del centro è assolutamente interdisciplinare, ma poi anche i componenti, ricercatori, dottorandi, davvero rappresentano varie provenienze. Per esempio, abbiamo alcuni ricercatori che sono laureati in ingegneria biomedica, altri sono psicologi, alcuni ricercatori che abbiamo avuto laureati in scienze cognitive, addirittura una laureata in linguistica, una mia studentessa, poi l’ingegnere del centro è laureato in musicologia e ha fatto il dottorato in scienze mediche. Abbiamo davvero tante diverse professionalitá che si completano a vicenda.
C’è l’imbarazzo della scelta, si può dire.
Vorrei citare in merito anche il prof. Petri Toiviainen, un mio collaboratore finlandese, che é stato direttore di un altro centro di eccellenza che ho cofondato in Finlandia (il Finnish Center of Excellence for Interdisciplinary Music Research che proprio nel nome aveva interdisciplinary), laureato in fisica nonché pianista jazz, diventato professore di musicologia. Dunque, ha fatto la sua carriera accademica come docente di musicologia, pur avendo una laurea in astrofisica. Apparentemente la sua laurea non c’entra nulla, invece c’entra tantissimo perché lui ha applicato le sue competenze nell’analisi dei dati musicali sia comportamentali che anche di neuroimmagine; le sue ricerche sono molto interessanti ed innovative insieme. Circa l’intedisciplinarietà, sono stata intervistata anche io, non da Nature come Peter Vuust, ma da una rivista danese, perché effettivamente lavorare nell’ambito, in mezzo a discipline diverse è una sfida, occorre saper parlare tante “lingue” specialistiche, occorre sospendere il giudizio, essere in grado di rapportarsi con gli altri in modo assolutamente rispettoso, avere una relazione con l’altro che deve essere di rispetto e fiducia perché non si va avanti se ci si pone come superiori o inferiori; ci deve essere un mutuo rispetto del reciproco lavoro e delle reciproche competenze. Purtroppo i problemi che ho riscontrato sono nati sempre e soltanto da queste incomprensioni legate alla mancanza di fiducia e mancanza di rispetto del lavoro reciproco, per cui questo è un punto fondamentale; l’altro punto fondamentale è poterlo fare, non essere inscatolati all’interno di compartimenti stagni che sono le discipline. Purtroppo in Italia ci sono questi settori disciplinari MP 01, MP 02, MP 06, dei numeri che sono ridicoli se si pensa agli sforzi ed ai tentativi di fare ricerca interdisciplinare, perché per farle capire: io posso essere un giorno 01, un altro giorno posso fare 02, un altro giorno posso saltare sulla musicologia. Ritengo sia quasi controproducente essere inquadrati dentro un compartimento stagno stabilito dall’alto da impiegati ministeriali. Se si vuole fare ricerca, ci si puó concentrare su un fenomeno che per sua natura richiede approcci convergenti e dunque metodologie da varie discipline. Certamente ognuno deve conservare la propria specializzazione e capacità disciplinare, però occorre essere anche aperti alla interazione ed alla collaborazione uscendo da questi compartimenti stagni. Sono da due anni in Italia ormai e vedo che la ricerca è molto più compartimentalizzata; è molto più difficile fare ricerca interdisciplinare rispetto a luoghi dove non ci sono questi numeretti, questi codicilli, diciamo.
Come diffondete i risultati delle vostre ricerche? Organizzate incontri, performance, concerti?
Ci sono vari canali: il Italia si chiama il terzo settore di divulgazione, se non sbaglio. In Danimarca abbiamo un annuario che riassume le ricerche svolte, ma anche l’impatto sulla società, quello che facciamo successivamente per portare le ricerche alle varie comunità, alle scuole, alle istituzioni, ai politici. Tre anni fa se non sbaglio, con altri studiosi avemmo anche l’opportunità di presentare il nostro centro alla ministra della sanità, il corrispettivo del ministro Speranza in Italia, in Danimarca e venne una delegazione, perché la ministra voleva visitare i centri di ricerca innovativi interdisciplinari, e scelse il nostro per vedere cosa come operavamo. Peter Vuust, inoltre, ha presentato al parlamento europeo i risultati della nostra ricerca che avevamo portato avanti al Centro. A me è capitato di parlare al Karolinska Institutet di Stoccolma, dove avevano organizzato un incontro un cui era presente anche un lord del parlamento inglese, un incontro dedicato a pensare come convincere i politici a cambiare le politiche sociali e sanitarie, a convincerli ad inserire nel programma sanitario anche l’arte e la musica; quindi, per far sì che queste arti possano essere inserite nell’agenda dei ministri della sanità europei. In Italia queste cose francamente non so se si fanno, come si fanno.
Ho l’impressione che non si fanno, è un’impressione, per carità siamo pronti ad essere smentiti, anche se qualcosa di simile nel campo si può pensare, come la musicoterapia, ad esempio.
Sulla musicoterapia in Italia si entra in un ulteriore argomentazione complessa
Sarebbe un’altra intervista.
Sí, perché la musicoterapia in Italia non è istituzionalizzata a sufficienza rispetto ad altri paesi europei; è affidata soprattutto a istituzioni educative private. Esistono dei corsi nei conservatori, ma forniscono titoli di studio biennali, che non sono riconosciuti a livello internazionale. Ho notato che esiste della frammentazione rispetto a ciò che avviene nei paesi nordici o in Inghilterra dove addirittura vi sono delle cattedre universitarie di musicoterapia. In Italia sono davvero pochi gli sforzi rispetto a quelli che si potrebbero fare. Il discorso che facevo prima rispetto ad un confronto tra cultura e sanità è al di là degli approcci terapeutici veri e propri perché alla fine si potrebbe operare e fare tanto nella diffusione, nell’accesso alla cultura e all’arte nel ciclo di vita senza aspettare che si arrivi alla malattia. Insomma, per prevenire invece che curare dopo. Questo tipo di forma preventiva non è prevista né dall’arteterapia né dalla musicoterapia, che intervengono su problemi giá esistenti. Viceversa sarebbe utile pensare anche in Italia, come in Svezia o UK, a come poter intervenire nella società a vari livelli e su varie fasce d’età per migliorare la qualità della vita in generale e prevenire tutta una serie di patologie che sono legate anche all’isolamento, alla solitudine, a problemi psicologici, visto che siamo anche in un periodo particolarmente oneroso per tanti di noi. Adesso che lavoro anche in Italia, mi interesserebbe interfacciarmi con la politica, partendo dalle comunità locali e regionali per progettare interventi di tipo preventivo. Qualcosa nel locale c’è: collaboro a dei bellissimi progetti in corso in Puglia. Uno di questi é ‘MusicaInGioco’ insieme al maestro Andrea Gargiulo, che nel corso degli anni ha offerto la possibilitá di suonare in orchestra a migliaia di ragazzini al di fuori della scuola, prestando anche gli strumenti in forma gratuita. Gargiulo si è ispirato al sistema di Antonio Abreu, musicista venezuelano che aveva questo approccio, diciamo sociale, alla musica. In Puglia questo programma è andato avanti con fondi regionali e poi anche attraendo qualche fondo europeo. Io ho partecipato alla valutazione psicologica degli effetti dell’apprendimento musicale in bambini sia normotipici che ADHD o autistici. Ci sono diverse cose che stiamo facendo in questo ambito anche per contrastare la povertà educativa, i disagi, la devianza sociale; purtroppo si fa pochissimo in ambito locale e temo anche nazionale per contrastare devianza sociale, disagi di vario genere, e tanto possono la musica, l’arte e la ricerca. Nella ricerca noi vediamo gli effetti sul cervello di alcune situazioni di impoverimento ambientale e quindi sì, è importante confrontarsi. Usiamo questi canali istituzionali poi ovviamente i soliti canali, le conferenze, le pubblicazioni sia scientifiche che divulgative, ma puntiamo molto sulle pubblicazioni scientifiche. In Danimarca abbiamo organizzato più che altro corsi seminariali per musicisti in cui divulgare i nostri risultati e confrontarci anche con i musicisti sui nostri risultati, oltre ad una conferenza annuale che organizziamo al conservatorio di Aarhus/Aalborg per dialogare, portare ai musicisti e agli educatori, pedagogisti della musica, eccetera, quelle che sono le nostre scoperte.
Siete aperti a collaborazioni con altri centri di ricerca, altre associazioni, altre organizzazioni non accademiche? Sia danesi che anche europee?
Si lo facciamo, lo abbiamo fatto, lo stiamo facendo. Tendiamo a privilegiare istituzioni scolastiche, per lo studio dell’apprendimento musicale, oppure abbiamo una collaborazione con Oticon per impianti cocleari, per studiare come funzionano, per capire come migliorare il funzionamento di questi impianti cocleari per persone sorde, e aiutare gli ex sordi a percepire con maggior chiarezza ed amare la musica. Abbiamo poi innumerevoli collaborazioni con istituzioni di ricerca nel mondo. Tra di esse, il Max Plank Institute di Francoforte, l’Università di Helsinki in Finlandia, l’Università di Londra, l’Università di Oxford. Insomma parecchie collaborazioni.
Sono venuto a conoscenza delle vostre ricerche leggendo il volume ‘Storia dell’Estetica occidentale. Da Omero alle Neuroscienze’ curata dal professor Fabrizio Desideri e dalla professoressa Chiara Cantelli. Professoressa Brattico, come si è trovata a lavorare, o meglio ad essere inquadrata nell’ambito della neuroestetica musicale? Ci si trova o non si sente, diciamo così, “a suo agio” in questa definizione?
Francamente io amo molto l’ambito della neuroestetica, come possibilità di capire la necessità umana di fare ed esprimersi attraverso anche il canale artistico, ovvero una comunicazione che non sia legata alla risposta di bisogni, diciamo, immediati o anche personali non necessariamente immediati, ma legata proprio al bisogno artistico, estetico, espressivo. Mi piace molto questo tipo di approccio, ma talvolta mi sta stretto, nel senso che talvolta i miei colleghi che fanno neuroestetica, soprattutto nell’ambito delle arti visive, fanno ricerca sul bello, diciamo, pensato nella forma più classica del bello artistico. Questa peró è una riduzione di quello che si può fare per capire il bisogno di arte, il bisogno estetico dell’uomo perché non è solo bisogno di bello ma anche bisogno di espressione, persino spiritualità, autoriflessione che vada oltre i limiti o i confini dati dalle esigenze quotidiane. Questo bisogno di spiritualità ed espressione é difficilmente investigato nelle ricerche in neuroestetica più classiche, anche per i limiti delle metodologie di neuroimmagine utilizzate. Dunque, da una parte mi interessa e mi fa piacere lavorare in questo ambito, dall’altra quando scrivo i miei contributi cerco comunque di scriverli in modo che amplino il respiro della ricerca che viene fatta con metodi di neuroimmagine.
Ultima domanda per chiudere l’intervista, anche se me l’ha già articolata nelle precedenti risposte: progetti e ricerche future?
Ce ne sono tanti. Abbiamo dei progetti che avevo già accennato con le scuole medie musicali, stiamo cominciando a fare questi progetto, un progetto con pazienti con danni celebrali anche in stato vegetativo su cui facciamo un trattamento musicale, ma non solo, per cercare di studiare appunto le capacità residue della corteccia celebrare e anche possibili effetti riabilitativi della musica e poi progetti sulla memoria, per cercare di capire come quali sono i meccanismi che permettono di immagazzinare i suoni musicali e di capire brani musicali per intero e in particolare come si spostano queste traccie mnestiche dall’ippocampo nella neocorteccia e viceversa, la dinamica temporale di questi trasferimenti. Questi sono alcuni dei progetti che mi vengono in mente, poi ve ne sono altri sulla musica tonale, per esempio, sul come e perché alcuni amano la musica atonale avant guarde, e come possiamo utilizzare questa musica ad addestrare il cervello ad essere più plastico, più adattivo e così via. Tanti altri progetti abbiamo in arrivo.
Il discorso sulla musica tonale è molto interessante, sulla plasticità adattiva che si viene a creare, è molto interessante.
Si si si…
In chiusura, Professoressa, la ringrazio per la disponibilità a farsi intervistare e le faccio i migliori auguri per i suoi progetti.
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