(Discus Music Records 2021)
One man’s show. Alex Ward suona un po’ di tutto – batteria, chitarre, fiati (sassofoni, flauti, clarinetti), tastiere, basso elettrico, elettronica – e si cimenta come compositore, improvvisatore e ingegnere del suono in un disco che riassume la sua poliedrica più che trentennale attività come musicista.
Spaziando dal rock d’avanguardia allo stile AACM, musica da camera post-Darmstadtiana e altro ancora, l’estro di Ward rientra perfettamente nei registri creativi promossi dalla Discus. Un impasto orchestrale denso e riccamente articolato e dinamiche generalmente robuste ed energetiche, anche nelle tracce più d’atmosfera (Let), dove restano implicitamente suggerite, caratterizzano il lungo album (oltre 70 minuti), registrato in 8 mesi di intenso lavoro tra il luglio 2020 e il marzo 2021. Questo mix stilistico e di risorse creative, da cui talvolta sembra far capolinea un pizzico di autoironia – senza la quale sarebbe troppo forte l’effetto di autocompiaciuta celebrazione – genera l’effetto di un’impresa à la Frank Zappa (fatta salva la mancanza del canto).
A restare impressi sono i momenti più aggressivi, quasi hard (dove a dominare sono la chitarra distorta, il basso colpito con decisione e la partecipazione potente della batteria), e che, comunque non trascurano escursioni più sospese, come nel finale di Buyout, nonché i volteggi liberi degli strumenti a fiato nei brani più “avanguardistici”: qui cospicui assoli, con i vari strumenti a disposizione di Ward, condiscono pietanze di intrecci compositivi fondati su un interplay reso possibile dalle sovraincisioni. A volte il dominio su un vasto territorio di possibilità strumentali e competenze musicali porta ad esagerazioni evitabili, vuoi per lo sfoggio, fine a se stesso, di virtuosismi, vuoi per l’eccessiva insistenza su ripetizioni di pattern e droni, che suonano stucchevolmente artificiosi (come in Hewn e soprattutto nella decisamente noiosa Maybe it’ll Break the It). Inoltre, il marcato contrasto stilistico, tra i suoni robusti di un rock (sicuramente: non il solito rock) e le esplorazioni nei territori della musica colta (un tempo) sperimentale (Stilled) o nelle regioni dell’improvvisazione (quasi) libera (Cushioned) – quasi, dato che il risultato sonoro, almeno in questo caso, non è ottenuto da un’interazione in “tempo reale”, bensì da una, senz’altro sapiente, interazione in post-produzione – suona un po’ troppo ricercato e ambizioso. Insomma, a lasciare perplessi è la giustapposizione di troppe tendenze musicali diverse: l’impressione finale è quella di un pastiche auto-promozionale rivolto agli addetti ai lavori. Tuttavia, ciò non toglie che molti siano gli spunti interessanti e degni di attenzione, oltre che di sviluppo, e che l’autore sappia senz’altro il fatto suo.
Voto: 7