(Samo Records 2022)
A volte ci si rende conto che la ragione per cui si rinvia un impegno, senz’altro oltre alla pressione di altre occupazioni, può essere un disagio rispetto al compito da svolgere. Credo sia il caso di questa recensione dell’album di Samo Salamon con il bassista Arild Andersen e il batterista e percussionista Ra Kalam Bob Moses. Il chitarrista sloveno, che nell’album suona l’elettrica tranne che in You Take My Arm e Pure and Simple Being, in cui passa alla acustica a 12 corde, è uno dei musicisti contemporanei che preferisco. E, per questo album, in cui vuole apparire musicalmente puro e semplice, dichiara di aver realizzato il sogno di suonare con due tra i suoi musicisti preferiti. Eppure è un disco che non so bene come prendere, e mi spiace un po’, data la stima che ho per Samo Salamon. L’atmosfera è a tratti intensa, a tratti rarefatta, liquefatta. E se il suono cristallino della chitarra si staglia a volte in primo piano su un registro superiore, tracciando un percorso netto – magari giungendo ad affermare sentenze chiare e nette come nella conclusione di Tell Yourself –, il magma di percussioni e basso presenta spesso un territorio acusticamente privo di appigli sicuri. Il che non è di per sé un male musicale, anzi. Però si ascolti la seconda traccia, Rooms of Clouds. I suoni esprimono la profondità di spazi sonori aerei (gli spazi delle nuvole appunto), la chitarra con tocchi delicati, il basso girovagando nelle altezze sopra gli accenni delle percussioni: è una meditazione in cui faccio una certa fatica a entrare (ma ho sempre più l’impressione che sia io a dover riorientare il mio ascolto). Poi questa Stimmung è bruscamente interrotta dalla chitarra elettrica distorta di The Golden Light of Evening, in contrasto con gli archi morbidi del bassista, fino a che questo prende il largo sulle onde delle percussioni. Ancora diverso è You Take My Arm in cui l’acustica e il basso puntellano con linee melodiche, prima solo accennate poi più decise ed estese, il continuo pulsare arabeggiante delle percussioni; uno schema che, dopo due tracce più abbozzate, eteree e “improvvisate”, si ripropone in Little Song; ma qui l’ancoraggio al canto della melodia del tema offre una guida più chiara all’ascolto. E l’album si conclude con il brano eponimo – che in qualche modo sintetizza le due anime del gruppo (se così si può dire): la chiarezza espositiva di una linea melodica pura e semplice e il ribollente magmatico flusso atmosferico – e con Ghosts, in cui la fusione sonora di basso e chitarra ci immerge in un paesaggio africano, questa volta a partire da un canto di chitarra e basso che presenta il rituale di una comunità. Forse, ora che ho messo su carta (si fa per dire) queste parole, in cui ho provato fenomenologicamente a chiarire a me stesso le dinamiche dell’ascolto del disco del trio, il carattere torbido, magmatico, ribollente e ma al contempo “paesaggistico”, meditativo, aperto e in qualche modo sereno dell’album mi si è manifestato in modo più chiaro e ho in qualche modo, esteticamente, capito di che si tratta. Il disagio di cui dicevo all’inizio di questa tardiva recensione è scomparso. È un disco che, se attraversato con attenzione, può offrire ottime soddisfazioni all’ascolto.
Voto: 8,5