Ho incrociato la figura del contrabbassista e compositore William Parker l’estate scorsa quando, convinto da programmi radio e recensioni su giornali che seguo regolarmente, mi sono deciso ad acquistare presso il mio negozio di dischi di fiducia il box ‘Migration of Silence Into and Out the Tone World’. L’ascolto ripetuto di questo lavoro – secondo me, e lo ribadisco nell’intervista, un vero e proprio monumento musicale – mi ha portato ad approfondire la conoscenza e l’ascolto della musica dell’artista. Una sofferenza per il portafogli ma una gioia per le orecchie e per la mente, che mi ha fatto decidere di tentare un’intervista per indagare la poetica di questo autentico gigante della musica contemporanea. Grazie ad Ann Braithwaite della Braithwaite & Katz che mi ha messo in contatto con William Parker, ho potuto portare a termine a fine febbraio 2022 l’intervista con un paziente (visto il mio inglese), rilassato e profondo artista, col quale ho conversato su musica, estetica, scrittura, psicologia, attività discografica, ed esperienze di vita. Altri ringraziamenti dovuti: per aiuti parziali nella traduzione ringrazio Moira Bernardoni e Daniela Germani. Per la revisione completa della traduzione ringrazio Filippo Focosi. E ora, scusandomi per il ritardo nella pubblicazione, vi consiglio caldamente la lettura: vi garantisco che vi si aprirà un universo!
MP: (photo home page by Peter Gannushkin) Sono giornate un po’ strane per fare un’intervista, per via di quello che sta accadendo in Ucrania… giornate strane e piene d’angoscia..
WP: oh sì, davvero terribile.. stiamo vivendo giornate tremende..
MP: Prima di iniziare l’intervista, desidero augurarle buon compleanno, seppur in ritardo..
WP: Oh grazie, grazie molte!
MP: Mi racconti come è nata la passione per la musica. Ha pensato fin da subito di farla diventare il Suo lavoro? E perché proprio il basso?
WP: Sono stato introdotto alla musica da mio padre, che tornava a casa dal lavoro e metteva su il disco di Duke Ellington Live at Newport 1956 ‘Ellington at Newport’; ricordo che ascoltava soprattutto un brano, Diminuendo and Crescendo in Blue. Credo di aver avuto otto anni. Io e mio fratello Tommy ascoltavamo e ballavamo. Paul Gonsalves suonava quel magnifico sax tenore. Improvvisamente l’idea della Musica era diventata parte di me. Più tardi, ho scoperto che Duke Ellington era l’idolo di mio padre, e che il suo sogno era che io e mio fratello un giorno avremmo suonato nell’orchestra di Ellington. Al liceo ero in qualche modo attratto dal contrabbasso. In ogni disco che ascoltavo, era il suono del contrabbasso che mi colpiva. Percy Heath, John Lamb, Eddie Jones, anche la mano sinistra di Jimmy Smith all’organo. Li ho ascoltati e ho preso appunti. Dopo aver ascoltato ‘A Love Supreme’ molte volte e aver letto le note di copertina di John Coltrane, ho avuto l’idea di cosa fosse la musica. Ho ascoltato anche Ornette Coleman e Cecil Taylor. Volevo dedicare la mia vita alla Musica.
MP: La seconda domanda riguarda la Sua esperienza musicale: mi può raccontare il Suo lavoro con il Cecil Taylor Unit?
WP: Ho incontrato Cecil Taylor nel 1973, tramite il sassofonista Jemeel Moondoc e il trombettista Arthur Williams. Entrambi producevano un sound unico con i loro strumenti. Avevano un gruppo chiamato Ensemble Muntu, fondato da Jemeel. Ho suonato con quel gruppo a partire dal 1973, ed è stato un ottimo allenamento; abbiamo suonato tutta musica originale. Incontrai Cecil attraverso Arthur e fui invitato a suonare con Cecil alla Carnegie Hall nel 1974, con la big band. Ho anche suonato con Charles Tyler, Sonny Murray, Rashied Ali e molti altri musicisti della scena newyorkese. Così quando nel 1980 mi è stato chiesto di unirmi al Cecil Taylor Unit, ero pronto. Quando imparai a suonare con Cecil, ero sulla strada giusta; la musica che facevamo partiva dall’ascolto delle persone e mirava a trasformare le anime attraverso i suoni. Cecil non mi diceva mai cosa suonare, né mi ha mai detto come suonare qualcosa; era qualcosa di più elementare, lui forniva delle strutture di base al pianoforte che io dovevo interpretare, il motivo pianistico era come un palloncino e io dovevo soffiarci l’aria dentro … tutta la musica deve avere una forma ma poi bisogna lasciarla andare, per poi seguirla, interagendo coi suoni che produciamo; questo era ciò che facevamo, ed era qualcosa di grandioso; è stato veramente bello suonare con Cecil, per le possibilità che dischiudeva, con lui davvero non c’erano limiti alla creatività.
MP: Passiamo alla Sua produzione discografica. Vorrei focalizzarmi su due album: ‘Essence of Ellington / Live in Milano’ e ‘I Plan to Stay a Believer: The Inside Songs of Curtis Mayfield’ (che amo particolarmente). Come sono nati questi album? In che modo ha scelto i musicisti? Quali idee li ha ispirati?
WP: Il primo album, ‘Essence of Ellington’, è dedicato a mio padre, Thomas Parker, che amava moltissimo la musica di Duke Ellington. Non so quale progetto venga prima, se il progetto Curtis Mayfield o il progetto Ellington, forse il Curtis Mayfield è venuto prima, ma non ne sono sicuro. L’idea era di entrare nella (loro) musica e raccontare la (loro) storia attraverso i nostri occhi perché eravamo noi a suonarla. Non avevamo arrangiamenti pre-impostati, molta musica l’abbiamo suonata senza provarla prima. Il Curtis Mayfield Project è nato cosi: mi trovavo a Parigi e stavo parlando nei camerini con uno dei produttori e con alcuni musicisti, dicendo che mi sarebbe piaciuto fare questo brano di Curtis Mayfield [and the Impression, nrd.], “I’m so proud”, e che mi sarebbe piaciuto un giorno suonare la musica di Curtis Mayfield. La musica di Curtis era diversa: era politica, era sociale, conteneva un messaggio particolare e aveva un grandioso suono “soul” ricco di spirito. Qualche tempo dopo il produttore di Banlieue Bleues è venuto da me e mi ha detto: “Sei davvero interessato a realizzare questo progetto?”. Gli ho detto di sì. Successivamente mi ha invitato a venire a Parigi e abbiamo lavorato con 30 bambini, provenienti da quattro diverse scuole, a cui abbiamo insegnato la musica di Curtis Mayfield (ci sono un paio di brani in cui i bambini cantano), e poi abbiamo fatto un primo concerto con Louis Barnes, Dave Foster, Dave Burrell, Hamid Drake e Lena Conquest. Lena Conquest aveva cantato alcuni brani di Curtis Mayfield, per cui l’abbiamo coinvolta nel progetto, insieme a D. Foster, il sassofonista che ha suonato con Sam & Dave (il duo rhythm and blues). Gli altri musicisti sono stati Louis Barnes alla tromba e, naturalmente, Amiri Baraka per il pezzo centrale dell’album, dove le parole vanno a completare l’intera storia.
MP: Cisco Bradley ha scritto la Sua biografia, Universal Tonality, il libro che racconta la Sua vita (da me recensito qui). Può spiegarmi meglio il concetto di “Universal Tonality”?
WP: Beh, la “Universal Tonality” [tonalità universale] riguarda ciò che accomuna i suoni emessi dalle persone. Un buon esempio è costituito dal pianto dei bambini. Poniamo di prendere un bambino russo, un bambino italiano, un bambino americano, o dei bambini provenienti dal Giappone, dalla Cina, o dall’Islanda, e di metterli tutti in una stessa stanza. Poniamo che inizino a piangere. A questo punto, se ti chiedo di dirmi, semplicemente ascoltandoli, qual è il pianto del bambino italiano o del bambino russo, tu non sarai in grado di darmi una risposta. A questo livello il pianto ha lo stesso suono per tutti. A un livello più ampio, ciò significa che possiamo essere connessi con i musicisti di tutto il mondo, e che la nostra musica può arrivare a tutti, pur senza sacrificare la nostra individualità quando suoniamo.
MP: Insieme a Sua moglie, la danzatrice Patricia Nichols, Lei è molto attivo nel promuovere la contaminazione tra danza e musica improvvisata. Penso ad esempio al Sound Unity Festival e al Vision Festival. Mi può dire di più riguardo alla loro concezione e organizzazione? Come è nata l’idea di organizzare questi festival, e come sono strutturati?
WP: L’idea di base viene da quei musicisti che non lavorano per il mercato mainstream o per qualche istituzione, e che invece di sedersi e lamentarsi di questo, si impegnano a creare un sistema alternativo. Questo è quello che è successo negli anni ’60, con la Jazz Composers Guild guidata da Bill Dixon, o con Charles Mingus e Max Roach e il loro “contro-festival” di Newport [The Newport Rebel Festival, nrd.]. L’idea deriva dall’auto determinazione e dalla convinzione che si possa creare qualcosa che sia d’aiuto ai musicisti dando loro l’opportunità di suonare e presentare i propri lavori. Altrettanto centrale è la volontà di stabilire delle connessioni tra musica, danza, poesia, e arti visive, a differenza di quanto facevano personaggi come George Wien, che ha pensato solo a fare soldi con la musica. Noi mescoliamo musica, danza, poesia, arte visiva, film: forme d’arte diverse si nutrono a vicenda poiché ciascuna di esse utilizza elementi che provengono dalle altri arti. Nel cinema, ad esempio, possiamo trovare arti dell’immagine (in termini di esperienza visiva), colonne sonore, movimenti (di attori e ballerini). Lo stesso discorso lo possiamo fare a proposito della musica, in quanto in essa abbiamo movimento, colore, e molte altre componenti. Ora che sto insegnando al college di Bennington, per sette settimane, parlo spesso di Akira Kurosawa, il regista giapponese, e di Federico Fellini (di cui l’altro giorno abbiamo guardato ‘La strada’): tutti i loro film hanno immagini, emozioni, contenuti, e lo stesso succede con la musica e le altre arti. Nell’Arte tutto è interconnesso, e nessuna cosa è migliore di un’altra.
MP: Parliamo ora della Sua attività di scrittore: ha pubblicato per la casa editrice francese RogueArt tre volumi – dal titolo Conversations – contenenti le interviste da Lei fatte a vari musicisti (come Sainko Namtchkylak, per fare un nome) appartenenti a generi musicali differenti.
WP: Sì, e sto attualmente lavorando al quarto volume, che dovrebbe uscire a Giugno.
MP: Benissimo, comprerò anche quello! A mio parere sono libri molto interessanti, e sarebbe bello se fossero tradotti in italiano. Come è nata l’idea di queste Conversations?
WP: Penso che la storia della musica sia raccontata al meglio dai musicisti, ed è una storia molto vasta, che tutti hanno vissuto in modi diversi – nuotando in fiumi sonori differenti, per così dire -; modi diversi di fare e ascoltare la musica. Sono stato ispirato da un libro chiamato ‘Notes and Tones’ di Arthur Taylor [Notes and tones: Musician-to-Musician Interviews, Da Capo Press, 1993; ndt.], che mi ha spronato a vedere in che modo i musicisti intervistano altri musicisti: il risultato è diverso quando sono i musicisti a intervistare… In generale, voglio scrivere per qualche ragione, così è nata l’idea di avere delle conversazioni con i musicisti parlando in modo molto libero; ci sono un sacco di cose che non puoi pubblicare quando i musicisti parlano in occasioni determinate, perché ci sono un sacco di polemiche che possono emergere, quindi è meglio realizzare qualcosa di stilisticamente simile a un’intervista, diciamo a metà strada tra una conversazione e un monologo… Alcuni dei musicisti jazz quando sono intervistati è come se stessero dipingendo un ritratto di loro stessi, è come se in questo modo fissassero su carta i loro ricordi. Molti musicisti lo hanno fatto, Roscoe Mitchell ad esempio, anche Henry Threadgil: tutte queste persone scrivono le proprie storie, non per ragioni personalistiche, ma perché forse la loro storia può ispirare altre persone che amano la musica, stimolare la loro fantasia e creatività; penso a Marshall Allen, che ha suonato la batteria con Charlie Parker in alcune jam session, e col quale credo continueremo a lavorare in altri progetti. Purtroppo molti musicisti sono morti, ad esempio avrei voluto intervistare Juni Booth, il bassista, che purtroppo è venuto a mancare un paio di mesi fa; volevo intervistare anche Peter Kowald, Wilber Morris, Fred Hopkins, e Malachi Favors, ma non ne ho avuto la possibilità.
MP: Nel 2020 Lei ha pubblicato il box di 10 CD intitolato ‘Migration of Silence Into and Out The Tone World’. Un opus magnum che penso rappresenti un punto apicale della Sua ricerca artistica. Può dirci qualcosa a proposito di quest’opera?
WP: Beh, sin dal 1972, quando ho iniziato a suonare, ero interessato a tante cose: musica da camera, rythm’n’blues, big band, swing, musica moderna, musica per pianoforte, musica vocale. Prima di diventare musicista scrivevo ispirandomi a Samuel Becket, Harold Pinter, e autori simili; alla gente piace scrivere, e così ho fatto il mio ingresso nel mondo della scrittura molto prima di iniziare a comporre musica. La mia mente è piena di idee, ogni giorno scrivo un brano, probabilmente ne scriverò uno oggi, e un altro più tardi, perciò nel tempo ho accumulato molto materiale, tutte cose molto diverse tra loro … se dovessi morire domani, la gente non avrebbe idea dell’intero spettro di ciò che sono in grado di fare, perciò ho voluto mettere tutto questo materiale in un box di dieci cd, prima di pubblicarli separatamente nel corso degli anni. Bisogna prendersi del tempo per ascoltare mondi musicali così diversi, dalle musiche ispirate ai grandi registi italiani (Fellini, Visconti, Sergio Leone), ai brani in stile Harlem Music (che è una musica molto dolce e ricca di suggestioni personali), dal funk cosmico alla musica per pianoforte solo… suoni antichi e moderni, dimensioni musicali eterogenee, è vero, ma a me piace fare cose diverse, è qualcosa di naturale per me cimentarmi in situazioni differenti. In questo momento, ad esempio, sto scrivendo un poema sinfonico che sarà eseguito in Canada prossimamente, e che coinvolge attori e musicisti. Mi piacerebbe anche realizzare qualcosa che abbia a che fare con artisti che amo molto, come i registi teatrali Peter Brook e Jerzy Grotowski, o la coreografa Pina Bausch.
MP: Lei è davvero un’enciclopedia vivente! Nel 2021, Lei ha pubblicato l’album ‘Mayan Space Station’, che vede protagonista anche la chitarrista Ava Mendoza; musicista che ho intervistato per Kathodik nel 2012 quando venne in Italia (a Macerata) per un concerto (la segnalo qui). Come mai ha deciso di inserire una chitarra nella Sua formazione?
WP: Beh, in realtà mi è sempre piaciuta l’idea; credo che la prima volta che ho davvero apprezzato la combinazione di chitarra e organo è stata con The Tony Williams Lifetimes, dove suonavano Larry Young, John McLaughin, Jack Bruce e ovviamente Tony Williams. Mi piace anche Wes Mongomery, come pure Kenny Burrell e Derek Bailey. Ma Ava Mendoza è un’altra cosa. Non ho ascoltato molto Jimi Hendrix né molto altro blues. Mi piace cimentarmi con combinazioni timbriche differenti, come quelli che puoi avere dal “violin trio” con Hamid e Billy Bang, dal “clarinet trio” con Perry Robinson e Walter Perkins, dal “piano trio” con Eri Yamamoto e Mayan Space Station, e con questo “guitar trio”. Non abbiamo discusso a livello teorico, ci siamo semplicemente messi a suonare, e la cosa ha funzionato. Abbiamo in programma un concerto ad Aprile al Darmorth College. Alle volte si tratta di assecondare un impulso interiore, darsi una chance di suonare con una certa persona – che sia un chitarrista, un sassofonista, un trombettista, e così via -, concedersi una possibilità. Quando si segue il proprio feeling, nel 99% dei casi la cosa funziona.
MP: Parliamo di un altro aspetto: quanto è importante per Lei la dimensione live? Mi può indicare le differenze e affinità tra l’Europa e gli Stati Uniti per ciò che riguarda le tournée e i concerti dal vivo?
WP: Beh, le ragioni per cui preferisco andare in tour in Europa sono queste: [in Europa] ci sono più soldi, vi è una maggiore conoscenza su cosa comporta organizzare dei concerti, ci sono scrittori e giornalisti più intelligenti e preparati sulle diverse forme d’arte.
MP: Ha intenzione di tornare a suonare in Italia in futuro? Lei ha un particolare appeal con l’Italia; nel 2005 è stato anche eletto musicista dell’anno dalla rivista Musica Jazz.
WP: Sì. Mi piacerebbe tornare. Sono pronto a tornare per suonare tanta musica. Mi dispiace solo il fatto che ho smesso di mangiare la pasta, perciò dovrò accontentarmi di pesce e insalata…
MP: Lei è stato in Europa qualche giorno fa, mi diceva.
WP: Sì, sono stato a Parigi… è giunto il momento di tornare in Italia!
MP: Spero succeda presto! Conservo ancora un biglietto di un Suo concerto del 2007, Lei suonava con Anthony Braxton nel Cecil Taylor Quartet, a Reggio Emilia, per il Festival Angelica (qui si trova il link della recensione del concerto).
WP: Si, mi ricordo quel concerto.. leggerò volentieri la recensione, grazie.
MP: Nel Suo sperimentare con vari tipi di musica, Lei ha avuto modo di suonare con svariati musicisti. C’è qualche musicista con cui ha avuto un particolare feeling? Mi viene in mente ad esempio Hamid Drake, che potrei definire un Suo “fratello musicale”. Può farmi qualche altro nome?
WP: Beh, come sai, ci sono tanti musicisti con cui in passato ho avuto un legame importante: Rashied Ali, Milford Graves, Charlie Gayle, Kid Jordan, Cecil Taylor e molti altri; posso citare anche Daniel Carter, Billy Bang (purtroppo scomparso), il trombettista Roy Campbell Junior, il pianista Cooper Moore… Non è facile sostituire musicisti importanti che non sono più tra noi. Ad oggi suono spesso con Rob Brown, James Brandon Lewis, Gerald Cleaver, Ava Mendoza. Più concerti facciamo insieme, più il nostro legame si consolida. Sono felice di poter continuare a suonare, vediamo cosa ci porterà il futuro, non possiamo sapere cosa accadrà domani, anche perché il domani diventa subito oggi!
MP: Il primo volume delle ‘Conversations’ include l’intervista con il batterista jazz Milford Graves, “Rhythms come from the heart”. Graves ha registrato il Suo battito cardiaco e glielo ha fatto ascoltare. Quando lo ha ascoltato, Lei ha definito l’esperienza di questo suono come una sorta di “intuizione epifanica”: un’immagine potente, questa, che mi ha molto colpito, e sulla quale vorrei che mi raccontasse qualcosa di più.
WP: Beh, è stato qualcosa di inaspettato: un giorno sono entrato in casa sua e lui mi ha detto che voleva farmi sentire qualcosa, e così mi ha fatto ascoltare il mio battito cardiaco. Appena quel suono è uscito dall’altoparlante, gli ho chiesto “che concerto è questo?”. Lui mi ha risposto che era il suono del mio battito cardiaco: un suono molto simile a quello del mio contrabbasso! Questo mi ha fatto pensare al fatto che il modo in cui suoniamo la musica, il modo in cui respiriamo, il modo in cui facciamo diverse cose, sono tutti collegati al cuore, ai nostri organi vitali..
MP: Mi racconti del Suo rapporto con la Aum Fidelty: come si trova a pubblicare per questa label? Sembra una collaborazione molto interessante…
WP: Qualche volta incido per la Aum Fidelty e qualche volta per la mia label, Centering Music, i cui dischi sono distribuiti proprio dalla Aum Fidelty. Steven Joerg è un grande produttore, molto attento alla qualità del suono; con lui ho un ottimo e proficuo rapporto. Il nostro prossimo disco si chiamerà ‘Universal Tonality’, che vede protagonisti (tra gli altri) musicisti come Dave Burrell, Rob Brown, Daniel Carter, Miya Masaoka, Billy Bang, Gerarld Cleaver [si tratta della registrazione di un concerto tenutosi a New York nel 2002, in cui Parker è accompagnato da ben 16 musicisti; ndr.].
MP: Una curiosità riguardo al Suo album ‘Major of Punkville’. Come mai ha scelto un titolo così bizzarro?
WP: Possiedo un libro intitolato ‘Major of Punkville’; se ne trovo una copia te la spedisco! Il titolo rimanda a certi film tra il poliziesco e la commedia, come Palookaville, Dick Tracy, cose del genere.
MP: Un altro dei Suoi lavori discografici che mi ha particolarmente colpito, e che ho scoperto grazie a Discogs, è il box intitolato ‘Centering Unreleased Early Recordings 1976-1987’. Ciò che trovo interessante è il fatto che Lei qui riprende in mano alcuni Suoi brani del passato per riportarli alla luce e rivisitarli.
WP: Beh, c’è molto materiale degli anni Settanta che non è stato mai registrato. A volte sento che è cruciale farlo rivivere, e che potrà essere di ispirazione per gli ascoltatori. L’idea era di riproporre cose già fatte sapendo però che ne usciranno rivisitate e dunque differenti. È come se tutto facesse parte di unico insieme.. Qualche giorno fa, ad esempio, mi è tornata alla mente una melodia che ero solito canticchiare quando avevo 14 anni. Ho intenzione di registrarla quanto prima, altrimenti potrebbe sparire di nuovo e abbandonarmi una volta per tutte..
MP: Il passato musicale è interessante, perché ci dice qualcosa su William Parker: sul musicista, sul compositore, sulla persona..
WP: Senza dubbio. In un certo senso è la colonna sonora della mia vita. La musica è il mio modo di raccontare storie, a partire dalla mia.
MP: “Colonna sonora della mia vita”: non potremmo chiudere con un’immagine più bella di questa! Grazie infinite per la disponibilità, William!
WP: Grazie a te, Marco, a presto!
Link: William Parker Home Page
Link: Aum Fidelty Records Home Page
Link: Centering Music Records Home Page
Link: William Parker Facebook Page
Link: Vision Festival Home Page