Sesto appuntamento della serie di interviste a direttori artistici di Festival, in giro per l’Italia, che si approcciano alla Musica in maniera caratterizzante e molto interessante, provando a dare un loro punto di vista peculiare sul panorama contemporaneo. La prima intervista a Paolo Francesco Visci, direttore dell’IndieRocket Festival di Pescara (qui). La seconda intervista a Marek Lukasik, direttore artistico del Lars Rock Fest di Chiusi (SI), (qui). La terza intervista a Massimo Simonini direttore artistico dell’AngelicA Fest di Bologna (qui). La quarta intervista a Lucia Ronchetti, direttore del 67° Festival Internazionale di Musica Contemporanea Micro-Music, della Biennale di Venezia (qui). La quinta intervista a Andrea Gambo direttore artistico del festival Jazz is Dead!, di Torino (qui). Oggi mi sposto virtualmente a Marina di Ravenna per intervistare Chris Angiolini, direttore del Beaches Brew Festival. Altra manifestazione che pone la rottura di schemi musicali tra le sue caratteristiche, è di rigore entrata nella rosa di interviste che volevo fare. Ci sono capitato qualche volta nei miei giri musicali, e sono sempre stato piacevolmente sorpreso dalla proposta musicale presentata. Giocoforza l’idea di contattare Chris Angiolini, per approfondire con lui la genesi, la filosofia e la poetica che anima il Beaches Brew Festival. A voi come sempre la lettura.
Iniziamo dall’origine, come è nata l’idea del Beaches Brew Festival, che ha compiuto 10 anni nel 2023?
Quest’anno ci troviamo a festeggiare il 20esimo anniversario di Bronson Produzioni e quindi anche della programmazione sotto l’ormai leggendaria tettoia dell’Hana-Bi. La fama di una venue che faceva concerti in spiaggia in Italia si è diffusa molto velocemente in giro per l’Europa e non solo, tra gli addetti ai lavori. Da qui all’idea di Festival il passo diventa breve, ma i problemi di budget (l’ingresso gratuito), logistici e autorizzativi facevano sì che rimanesse una suggestione. Ci è voluto un pomeriggio in spiaggia con Miles Cooper Seaton (r.i.p.) degli Akron Family a fantasticare su questa idea per renderla subito concreta. Lui ne parlò con la sua agenzia di Booking olandese (Belmont) e ci mise in contatto. Io volai in Olanda e si decise di iniziare con una puntata zero (che comunque fece arrivare per la prima volta in Italia The War On Drugs che ora riempiono gli stadi). Il resto è storia, come si dice in questi casi.
Come è strutturata attualmente l’organizzazione del Festival? Quante persone ci lavorano? Quanti volontari?
Beaches Brew è una missione e l’unico modo per rendere sostenibile un Festival come questo è quello di aver un team molto ristretto e appassionato, con tutte le figure professionali al loro posto, ma con una funzionalità multitasking. Management, Direzione Artistica, Produzione, Uffici Stampa, Marketing e Comunicazione, Amministrazione, Artwork e Layout. Poi ovviamente, tecnici, fotografi, videomaker, e anche i volontari che entrano in azione nei giorni del festival. Il punto è che ognuno è responsabile del ruolo che ricopre, non ci sono comprimari, non ci sono tutte quelle sottocategorie che di solito si vedono in eventi tipo questo. In un certo senso qui tutti si sporcano le mani.
Quando iniziate a pensare e programmare al cartellone del festival?
Generalmente dopo l’estate, ma in realtà già durante il Festival in corso si inizia a pensare alla prossima edizione, credo che sia piuttosto naturale, valutare sul campo quello che sta funzionando e quello che invece va rivisto e migliorato. Il programma è generalmente piuttosto delineato entro la fine dell’anno.
Come viene effettuata la selezione degli artisti e artiste?
Con i budget davvero ridotti che abbiamo a nostra disposizione e l’ingresso gratuito diventa fondamentale il lavoro di scouting. Ed essendo il team in parte internazionale, questo aiuta ad avere occhi e orecchie un po’ ovunque. Passiamo molto tempo a scambiarci feedback soprattutto sulla vibe e i contenuti attorno a cui vogliamo plasmare il programma. Nuovi suoni, ibridazioni, inclusività sono ormai i tratti fondamentali di Beaches Brew. Cerchiamo sempre di mantenere una coerenza tematica. Negli anni ornai non si contano più le ‘prime volte’ in Italia di artisti che poi sono diventati enormi, vedi King Gizzard & The Lizard Wizard, Khruangbin, Lankum, The Comet Is Coming, Big Thief, Weyes Blood, Altin Gun tra gli altri.
Volgendo uno sguardo indietro, quali sono state secondo voi le edizioni più caratterizzanti?
Ogni edizione ha avuto i propri tratti caratterizzanti, proprio perché l’evoluzione e la ricerca sono continue nel tentativo di interpretare i tempi, le scene musicali, i nuovi suoni e i nuovi movimenti. Ogni anno il programma di Beaches Brew diventa sempre più unpredictable, ma tutti i nostri fan più affezionati ormai sanno che si tratta a tutti gli effetti di un Festival di scoperta in un clima rilassato e gioioso. La svolta internazionale c’è stata alla terza edizione (2014) con i Neutral Milk Hotel, la consacrazione con l’edizione che ha visto protagonisti Shellac, King Gizzard e la tempesta di sabbia, ma quell’anno (2017) la lineup rivista oggi era veramente pazzesca. Anche l’edizione successiva (2018) rappresenta una sfida (vinta) in cui abbiamo deciso di non voler diventare uno Psych Fest e di diversificare e ripensare il programma mantenendo quella dimensione Boutique che ci contraddistingue. Quell’anno tra gli altri ricordiamo Tune-Yards, Khruangbin, The Comet is Coming, Jlin….. Poi nel 2019 la doppietta Courtney Barnett e Big Thief con quello che probabilmente è stato il record di presenze. Quella dell’anno scorso poi, è stata la prima vera edizione post-covid con il ritorno alla piena operatività e il risultato è stato davvero fantastico con artisti come Pongo, Liv.e, Lankum e la piena consapevolezza del ruolo che ricopre oggi Beaches Brew nel panorama nazionale e internazionale.
Quelle con un maggior riscontro di pubblico?
In parte ti ho già risposto sopra. La svolta a livello di presenze è stata appunto nell’edizione del 2017, quella con i King Gizzard, Thee Oh Sees, Kikagaku Mojo, ma poi certi picchi sono stati anche superati con le esibizioni di Courtney Barnett e Big Thief (ancora per la prima volta in Italia che è un’altra nostra peculiarità). Ma il riscontro di pubblico in termini numerici diventa un tema non del tutto centrale quando l’idea è quella di mantenere un festival accogliente a misura d’uomo ad ingresso gratuito. La sfida diventa proprio quella di muoversi all’interno di una certa forbice e regalare un’esperienza, e non la crescita continua.
Usate i social per promuovere e documentare il festival? Se sì quali preferite? Li ritenete strumenti necessari per aiutare a conoscere il Festival?
Certamente non possiamo fare a meno dell’utilizzo dei social per promuovere, documentare e raccontare il programma in corso. In fondo è uno di quei casi in cui svolgono una funzione che permette di limitare i costi e democratizzare la comunicazione. Da un po’ di anni è sicuramente Instagram a farla da padrone per tutte le soluzioni che fornisce in cui immagini audio e contenuti riescono a coesistere con un certo equilibrio.
Come viene recepito il Festival dalla Regione Emilia Romagna? Siete radicati sul territorio?
Il Festival è co-finanziato dalla Regione ER e dal Comune di Ravenna per cui non possiamo certo dire di non essere ben recepiti e riconosciuti dalle istituzioni presenti sul territorio. Il punto è che i costi per lo sviluppo di contenuti e servizi per mantenere il festival appetibile e aggiornato sono decisamente esplosi nell’era post covid come ognuno di noi ha potuto verificare sulla propria pelle quotidianamente e quindi oltre a trovare nuove formule di finanziamento diventa anche necessario rivedere i budget e di conseguenza i contributi.
Una riflessione, il festival fa parte o ha fatto parte di network nazionali e internazionali? Per fare un confronto penso al festival internazionale di cinema e documentario a tema musicale Seeyousound che aderisce al Music Film Festival Network https://mffn.org/
Beaches Brew ha sempre mantenuto un ruolo da outsider anche all’interno della scena internazionale dei cosiddetti Boutique Festival nonostante sia apprezzatissimo da molti addetti ai lavori che accorrono ogni volta che riescono a ritagliarsi una finestra in quei giorni. Credo che quell’idea di essere completamente indipendenti nei contenuti e nelle dinamiche sia una delle sue/nostre peculiarità che lo hanno reso unico. Dopo oltre dieci anni però, con l’evolversi dello scenario internazionale, e proprio per guardare al futuro con maggiori speranze e nuovi sviluppi stiamo lavorando per entrare a far parte di qualche network internazionale affine alla nostra proposta.
Dal presente all’immediato, mensilmente parlando, futuro: state già iniziando a pensare a qualche nome per questo 2024?
Nel momento in cui scrivo la lineup è già stata annunciata e posso affermare che si tratti di una delle più coraggiose e curiose di sempre. Ogni artista rappresenta una scoperta e se proprio dovessi indicare qualche nome direi non perdersi assolutamente il kenyano Kabeaushé, le scatenatissime Lambrini Girls, e soprattutto gli/le Special Interest da New Orleans che dopo anni di inseguimenti siamo riusciti a portare per la prima volta in Italia con la loro Clubbing No Wave militante. Ma ancora gli HiTech da Detroit con il loro ghettotech che li ha spinti fino ai dischi dell’anno di Pitchfork o il fenomenale Ustad Noor Bakhsh, maestro pakistano del Benju (cetra a tasti tipica del Belucistan) che a settantotto anni è diventato un caso a livello globale grazie al suo album di debutto ‘Jingul’. E poi ci saranno etichette discografiche tra le più attive a interessanti del momento come Nyege Nyege (Uganda) e Bongo Joe (Svizzera) che hanno curato alcune parti del programma.
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