Cesare Basile ‘Saracena’

(Viceversa/Audioglobe 2024)

A esattamente trent’anni dal suo esordio e a cinque dal precedente e ottimo “Cummeddia”, il cantautore catanese pubblica il suo nuovo disco, anch’esso in dialetto.
L’aspetto più caratterizzante questo disco è il fatto che si tratta del suo disco più sperimentale nel quale convivono sonorità molto variegate, dall’elettronica, virata verso il post-trip hop, al folk mediterraneo, ma non solare, bensì con un’impronta gotica, passando per il folk mediorientale e nordaficano, oltre che, ovviamente, siciliano.
Il disco è una sorta di concept, in quanto gli otto brani, di cui due strumentali, ruotano attorno al concetto dell’esodo. Basile, infatti, si è ispirato al poeta palestinese Mahmoud Darwish, per cantare il dolore dei palestinesi.
Il disco si apre con il folk lento ed introspettivo di C’è na casa rutta a Notu, nella quale il cantautore catanese narra la Nakba attraverso un’altra esperienza di separazione, che è quella subita dagli arabi di Sicilia dopo la conquista normanna. A seguire Kafr Qasim un blues africano che evoca quello maliano dei Tinariwen. Con Ciuri i cutugni la sperimentazione elettronica, dissonante e distorta si incrocia con il cantato folk e con la chitarra mediterrena.
Nel disco c’è spazio anche per un assaggio di rock, che in Calitu ciatu si fonde con l’elettronica in modo dialettico, mentre U iornu du signuri è un dilatato brano folktronico che tracce lunghe linee spaziali.

Voto: 8,5/10

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