Report su giornateserate di storia futura nella città del passato. Enzimi, Dissonanze e pubblico di certe occasioni.
L’elettronica nonostante le sue disparate manifestazioni fatica tutt’ora a costituirsi come genere a sé, almeno in Italia. Da qui i Festival che nell’accorpamento delle proposte creano l’evento determinando spostamenti di massa. E’ dunque nella funzione suscitata dall’irripetibilità dell’evento che taluni inseguono proposte come queste. Questo però contribuisce a sdradicare la presenza solipstistica della cosiddetta cerchia di ammiratori e per questo si genere quella penalizzazione forzata che colpisce proprio le proposte più intriganti e personalistiche. Concorre non poco allo sgretolarsi di quella doppiezza originaria tra ascoltatore e musicista, l’annullamento dello spazio accordato al discorso dialogico, alla radunanza enunciativa. I musicisti, che spesso non sono solo “musicisti”, seguono solo il percorso della performance, manca invece quello della conferenza, del contatto e della parola. Questa ragione contrubuisce molto probabilmente a formare un vuoto, uno spazio da ricucire poiché fornire l’occasione di apprezzare il musicista anche dal piano umano, emotivo, intenzionale, potrebbe essere un’ottima strategia su cui puntare. Poiché se l’elettronica è davvero genere a sé, sarebbe bene incentivarne la portata filosofica così come si fa con l’arte contemporanea.
Saranno pochi i set degni di una valida ragione d’essere, di portata entusiasmante. Probabilmente si faticherà a concentrare l’attenzione ad Enzimi, sia per la dispersione ambientale che per la varietà poco collante e coerente dei set. Tuttavia della versione serale ci saranno almeno 3 proposte validissime:
Radio Boy incentra tutto il set sul movimento, sui corpi corrotti di un sistema discendente di capitalizzazione oramai in disfacimento. Se la prende con il sistema, incalza un discorso musicale profondamente politico: fa suonare mutande Benetthon, panini McDonald’s, manda in frantumi ogni cosa. Un paio di oggetti colpiscono le macchine di Villalobos, di Brinkmann. Herbert è incazzato nero, ha la stoffa dell’artista. Si ha paura che le scaglie di vetro prodotte dall’urto di un martello su un televisore colpiscano gli occhi di chi è in prima fila. Quando lascerà il palco quasi parzialmente impercorribile, una serie di assistenti del musicista regaleranno una marea di copie del suo disco. Probabile ulteriore gesto di protesta contro il caro prezzo dei cd che affoga il consumatore discografico.
Ottimo il set del sempre più soprendente Brinkmann, intelletuale diviso tra arte concettuale e musica minimale, personaggio a metà tra il locale house e la galleria d’arte. Aiutato da un Villalobos incredibilmente integrato, Brinkmann darà prova della sua stupefacente tecnica e della straordinaria sensualità erotica che sprigiona la sua musica. Di gusto particolarmente vitalistico, proporrà un set teso tra il suo ultimissimo rarefatto lavoro e quell’ascoltabilità più comunicativa e ballabile dei suoi 3 Soul Center. Stupisce la fortissima impressione orchestrale che emana il set, quasi che a suonare ci fossero 40 musicisti.
Il punto più alto della versione notturna/Enzimi la raggiungono i Supercollider. Capaci di un’ironia incredibilmente divina i 4 amici, coadiuvati da un filmakers che combina in direct angolazioni, missaggi video ed altro, realizzano in meno di un’ora e trenta ciò che va dalla now wave all’elettronica, dal post rock al post-minimale. Jamie Lidell riprende gran parte della vena dissacratoria presente nel suo esordio su Warp: canta soul, ha una voce bellissima che in più d’una occasione sembra essere ricamata su quella di Prince. Christian Vogel manipola, inventa, trasforma. Basso e batteria, aggiunti per l’occasione fanno di un set elettronico un concerto rock. E sono loro a dominare tutta l’attenzione intorno: sono il nuovo corpo alieno dell’elettronica e lo stato dell’arte delal musica creativa oggi.
Degno di citazione anche se inferiore il set di Swayzak. E’ da considerare lo sforzo di questo musicista inglese: convogliare sullo stesso vagone House, Glitch & voce, con una grossa derivazione per ciò che della Chain Reaction può ancora essere (ri)proposto. Eppure Swayzak non tocca un tasto, non manipola una nota. Si limita a guardare lo schermo nell’immobilità più disarmante. Soltanto grazie alla corista si animano gli animi, ma è questione di minuti ed il set ricade in una monotonia senza fondo, robotica, pneumatica.
Al Chiostro del Bramante purtoppo il primo giorno arrivo troppo tardi per il set di Martusciello ed in tempo per sentire gli ultimi dieci minuti di quello dei Retina. Rimpiango di non essere arrivato in tempo, poiché le apparizioni del primo che avevo visto mi avevano lasciato sempre esterefatto per la loro profondissima emozionalità catartica e l’essenzialità esistenziale delle profonde tessiture, mentre dei secondi ricordo la profonda vitalità e una certa violenza ritmica. In ogni modo questi 10 minuti bastano per testare l’enorme passo in avanti raggiunto dal duo partenopeo e la speranza di sentirli in una seconda prova, si spera meno derivativa della prima. Una certa inessenzialità investe Prefuse 73 & Max Durante. Rivisitazione hip hop senza rapping che stanca dopo pochi minuti, fatta di campionamenti, di basi, di tastetti premuti. Un hip hop senza voce, vecchio, vecchissimo.
Del secondo giorno è solo da tralasciare il live amatoriale, monotono e privo di aggancio interlocutorio con lo spazio circostante dovuto probabilmente ad un mancato soundcheck di Qubit. Il resto è ciò che di meglio si sia sentito in tutto il festival. Il live del duo cinese FM3 ricalca parzialmente in loro inedito lavoro discografico. Sibili luccicanti e rasoiate avant coagulati in un linguaggio a metà tra ricerca concreta e materica (non distante dal duo Steve Roden/Brandon Labelle) e digitalizzazione diretta prodotta dall’ausilio del Live dell’Ableton. Lavoro di incredibili attese cageiane, fortemente vivido, che colpisce per l’intensità ma soprattutto per la modalità con cui viene trattato il tutto (computer & sequencer + manopole analogiche). L’imperturbabilità dei due e la dimensione storica della location contribuiscono a raffinare il set. Uno dei migliori set che si siano sentiti negli ultimi anni. Derivativo ma con forti spunti avveniristici si presenta l’esibizione di Aoki Takamasa, un Aphex Twin versione giapponese, di notevolissima abilità compositiva e con forti ascendenze Raster Noton. Il set emana calore, particolarmente nei passi finali, si ha la sensazione che questa sia una rilettura profonda dell’elettronica moderna e che in tali contesti si possa esprimere ancora moltissimo, nonostante la sensazione di già-sentito.
Per finire Biospere. Lo tengo alla fine (scusandomi di non rispettare l’ordine delle scalette) per un paio di riflessioni che gettano luce negativa su tutta l’organizzazione e sul festival intero. Sappiamo che Biosphere, insieme a Thomas Koner e Francisco Lopez e pochi altri, è uno di quei musicisti a cui l’ambiente, non solo serve come cassa di risonanza, ma è “la Selva”, la totalità, da cui emerge il farsi musica. L’ambiente non è uno spazio di amplificazione quando piuttosto di direzione, di manipolazione della stessa sorgente. La sorgente musicale a suo volta rivece il trattamento dell’ambiente. Biosphere, insieme agli altri (più di tutti Scanner), si è sempre distinto per questa fortissima capacità di creare degli ambienti in diretta, d’interagire con lo spazio, di chiedere ospitalità allo spazio stesso e trovarne ospitalità vicendevolmente. Peccato che molti tra coloro che erano lì, ingiustificatamente, hanno pensato di trovarsi al bar e chiacchierare come allo stadio. Del resto ci si aspettava un pubblico attento, sensibile. Biospere ha interrotto bruscamente il concerto dopo pochi minuti, è scappato via visibilmente annoiato. Soltanto dopo richiesta esplicita degli organizzatori i bravi bambini sono rimasti zitti, spaventati della bacchettata come all’asilo permettendo lo svolgersi del live. Inutile dire che Biospere nonostante tutto, non solo ha commosso me e chi era con me, ma è stato tra i migliori.
Stupisce e sconcerta profondamente assistere a quest’apatia e manchevolezza del pubblico: poco attento alla sensibilità dell’artista, caciarone, da parato o tappezzeria. Roma è fatta di tanti locali, posti dove conoscersi. Si spera che per la prossima manifestazione coloro che amano fare amicizie vadano altrove. O si dovrà organizzare il tutto in una piscina con scivoli piuttosto che in un chiostro del ‘500 per farli felici!!! Si spera in una prossima edizione più seria e ricomposta, meno dispersiva (per orari, luoghi e proposte) e l’ausilio di un gruppo di discussione, magari organizzato in conferenze, per tastare ed ispezionare meglio il livello di consapevolezza e lo spessore dei musicisti così come quello del pubblico.
di Salvatore Borrelli
(Foto di Paolo Sforza)